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Politica
Referendum, Pd sarabanda:“Ni” di Bersani, “Sì” di Renzi e “No” di D'Alema

di Massimo Falcioni

Se, disobbedendo al Colle, il premier Renzi vuole il voto sul referendum il 27 novembre nell’iter della legge di Stabilità, non resta molto tempo per tentare compromessi su referendum costituzionale-legge elettorale in grado di evitare una lacerazione destabilizzante per il Paese. Al di là dei tatticismi, i margini di manovra sono ristretti perché la partita vera si gioca nel Partito democratico in uno scontro decisivo fra maggioranza e minoranze, con Renzi, D’Alema, Bersani in campo davanti ai rispettivi schieramenti. C’è ancora nel Pd chi crede che quella fra Renzi, D’Alema, Bersani&C non sia vera guerra ma addirittura una “mossa” tattica per giocare a tre punte come ai tempi del Pci quando la facciata della democrazia era garantita dal confronto fra la destra (Amendola) e la sinistra (Ingrao) che convergevano nella sintesi prodotta al “centro” dal segretario (Togliatti prima, Berlinguer dopo). Da allora tutto o quasi è cambiato in Italia e nel mondo.

Nel Pci, pur con accenti diversi, le varie anime e i rispettivi leader avevano un unico grande obiettivo: un partito capace di conquistare democraticamente il potere per superare il capitalismo e costruire in Italia il socialismo. Qual è oggi, nel Pd, l’obiettivo strategico in grado di tenere sotto lo stesso tetto personalità ed elettori di diversa provenienza in una amalgama mai riuscita? Schematizzando, la risposta sta nella storia personale dei tre attuali principali contendenti, soprattutto in rapporto al comunismo, non una questione di lana caprina, in quanto il Partito democratico è nato e vive con il contributo determinante degli ex comunisti.

Per l’ex democristiano Renzi, il comunismo è una aberrazione da cancellare salvando al massimo il Berlinguer della “questione morale”. Per Bersani è stato una grande esperienza storica che sulla linea gorbacioviana si poteva riformare senza essere cancellata. Per D’Alema si poteva anche lasciare com’era, ovviamente con lui al comando. Ecco, da qui si parte. Aggiungendo una domanda: perché Matteo Renzi è oggi a capo del Pd nato sostanzialmente dall’ex Pci e i suoi derivati e dai pochi reduci della sinistra Dc recidendo il cordone ombelicale con le radici ideali, storiche, culturali e politiche della sinistra incentrata sulla togliattiana via italiana al socialismo? Evidentemente perché anche in Italia quella sinistra non c’è più, marginale culturalmente ed elettoralmente, sconfitta sul piano storico e politico lasciando i suoi “vecchi” rappresentanti nell’illusione di poter “insegnare” ai nuovi la politica, fare da ponte fra passato e futuro, incapaci invece di gestire la fase di passaggio, come dimostra l’avvento da bersagliere di Renzi e del suo clan leopoldino, incapaci di compiere analisi ma capaci di usare il cancellino.

La fortuna del Pd sta nella crisi dei suoi avversari: il centrodestra moderato in cerca di progetti di governo e di leadership per il dopo Berlusconi; la destra, la Lega e il M5S ognuno nel proprio campo e a proprio modo a soffiare sul populismo del momento e sulla demagogia dell’antipolitica strumentalizzando sui nodi aperti dalla globalizzazione, quali crisi economica, immigrazione, terrorismo ecc; la sinistra-sinistra smarrita in mille rivoli, in fuga dalla storia e sempre in cerca del paradiso perduto. In questo quadro, soprattutto per fermare il partito anti sistema di Grillo, è sfociato il 40% del Pidì renziano alle Europee; in questo quadro – nella logica del partito riformatore, del meno peggio e come argine ai vari potenziali rischi rappresentati dagli altri, specie dal M5S – Renzi vuole oggi correre il rischio della battaglia del referendum costituzionale, riforma significativa ma non certo in cima alla scala delle priorità di fronte ai problemi dell’Italia.

E’, per Renzi, l’occasione cercata per cancellare le minoranze interne del Pd, chiudendo con questo Pd, facendolo uscire dalla attuale ambiguità politico-identitaria, rifondandolo, approdando nel Partito della Nazione. Per quale progetto? Come? Con quali alleanze? Dopo, tutto viene dopo quando Renzi avrà in mano partito e Nazione. Tutto bene, tutto facile? No. Perché il Pd, così diviso e “inutile”, e il governo, di fatto monocolore renziano, hanno perso credibilità, non passando dalle promesse ai fatti, ampliando l’area dei delusi e dell’astensionismo.

Lo stesso referendum vede contrapposti due schieramenti trasversali, con partiti e forze sociali molto diverse fra loro, addirittura incompatibili sul piano della rappresentanza culturale, politica e sociale. In questo bailamme chi sta peggio è il Partito democratico, palesemente lacerato, con il perentorio sublimato “Sì” di Renzi, il roboante “No” di D’Alema, l’ incolore “Ni” di Bersani per dire ci sono anch’io e pretendere poi l’obolo per la presenza. Si può pretendere di più per mandare al Paese un messaggio di disfacimento e per perdere, oltre le elezioni, anche la faccia? Bersani dice che oramai anche Renzi è politico non più nuovo ma “usato”, al pari degli altri rottamati, e che però dovendo scegliere, meglio l’usato “sicuro”, cioè uno della vecchia guardia.

Ma non è così. Perché Renzi, D’Alema, Bersani, diversissimi fra loro, sono tutti e tre, privi di spinta propulsiva, logorati, con una credibilità messa a duro rischio dai rispettivi fallimenti. Invece di impegnarsi insieme per spegnere l’incendio che da mesi devasta il Pd e cercare poi di difendersi dall’assalto dei vari nemici esterni, ognuno si è limitato ad incolpare l’altro e gli altri, sperando che il fuoco travolgesse solo l’avversario. Come nella Dc e nel Psi quando democristiani e socialisti gongolavano al tintinnar delle manette messe da Di Pietro agli amici-avversari dello stesso partito.

Da tempo in quei due partiti, per questioni di potere, si odiavano e si combattevano l’un contro l’altro, dal centro alla periferia e, appunto, Tangentopoli era considerato dai più un modo sbrigativo per far fuori i propri avversari interni. Nessuno si rendeva conto che in quel modo si avviavano tutti alla fine. Da mesi, la stessa guerra civile sta corrodendo il Pd e nessuno può o vuole fermarla. Né il giovin signore strafottente anticomunista Matteo, né i due superstiti del defunto Pci, l’altezzoso lider Maximo e il loffio Pier Luigi. Nel Pd sarabanda nessuno difende la “ditta”. Forse perché i “tre moschettieri” sanno che il Pd è solo zavorra, piegato dalle divisioni interne, da una giungla di correnti e di clan dediti a spartirsi la torta, dove la rivolta generazionale è stata la scusa per cacciare i vecchi e prendere le loro poltrone. Con il suo primo Big Bang Renzi ha occupato il Nazareno e Palazzo Chigi. Adesso il “rottamatore” è pronto al secondo Big Bang, quello che può tenerlo in sella per i prossimi 20 anni. A fine novembre, parte l’ultima battaglia. Per chi suona la campana?

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