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Politica
Referendum, Renzi vs D’Alema: la guerra coi soldatini di piombo

Di Massimo Falcioni

Adesso anche Giorgio Napolitano esce allo scoperto su referendum e legge elettorale: “E’ assurda la guerra sul referendum costituzionale”. E ammonisce Renzi: “L’Italicum va cambiato”. Vox clamantis in deserto, quella del presidente emerito. Perchè ovunque rullano i tamburi chiamando gli schieramenti del “Sì” e del “No” a scendere in campo per l’inutile sfida fra nuovi “guelfi” e “ghibellini”, di certo l’ennesima dimostrazione di incapacità della politica che ripete il refrain sulle riforme non distinguendo fra quelle buone e utili e quelle inutili o cattive e dannose. A suonare i tre squilli di tromba è stato per primo Matteo Renzi, certo con la partita del referendum di annientare definitivamente le minoranze interne del suo Pd e con la nuova legge elettorale di fare il pieno di voti e di seggi diventando il Dux dell’Italia con il suo partito-Stato acchiappa tutto, imbavagliando il parlamento e nominando a proprio uso e consumo persino i membri della Corte costituzionale e del Csm. Una riforma piegata agli interessi del premier e del suo esecutivo: si cambiano ben 50 articoli modificando l’assetto delle istituzioni in senso centralista e statalista. L’opposto degli ideali di Sturzo e De Gasperi ma anche di tanti altri padri della Patria laici, liberali, socialisti, comunisti.

Il premier-segretario punta alla vittoria, comunque.  Da lì la personalizzazione impressa dall’inizio, un errore di miopia e arroganza politica accentuato dai mezzi passi indietro degli ultimi giorni - di fatto strumentali come la disponibilità a cambiare l’Italicum - continui stop and go dettati dall’evolversi dei fatti e dei sondaggi elettorali che in queste ore, sull’onda della tragedia del terremoto e del caos grillino a Roma, ridanno fiato a Renzi e al Pd, a danno del M5S. Nella partita referendaria entrano nuovi soggetti di dubbia legittimità, dalla Cgil con un “No” che peserà poi sul risultato, alla … Goldman Sachs che cala un carico pesante: “In caso di vittoria del No la probabilità di successo delle ricapitalizzazioni delle banche più deboli diminuirebbe”, in altre parole un invito a votare “Sì” altrimenti si resta in mutande: una commistione fra politica-istituzioni e banche d’affari ben poco rassicurante. 

Fatto sta che il pacchetto “referendum-legge elettorale” è l’occasione per la resa dei conti nel Partito democratico, il duello finale fra i due irriducibili avversari, Renzi e D’Alema. L’autunno caldo sulla flessibilità e sulla politica monetaria europea e sull’esito della riforma costituzionale e della nuova legge elettorale sarà un autunno bollente fra Matteo Renzi e Massimo D’Alema: o il premier o l’ex premier ci lascerà politicamente le penne. Ai tempi della prima Repubblica gli scontri nei partiti avvenivano a porte chiuse, sui grandi temi politici. La lotta politica, spesso feroce, si faceva sui contenuti ma inevitabilmente aveva ripercussioni sulle singole persone con promozioni e punizioni senza appello. Con la rottamazione Renzi ha fatto a D’Alema e ad altri quel che prima D’Alema ha fatto ai suoi nemici ex amici con defenestrazioni e colpi di mano, ad Occhetto e non solo. Nei partiti dei politici di professione chi vinceva comandava ma non cacciava lo sconfitto non solo perché la ruota girava ma perché si rispondeva a un codice basato sul non affondare la lama fino in fondo lasciando un posto di lavoro e quindi uno stipendio - previa autocritica - a tutti quelli che erano della stessa “ditta”. Adesso chi perde perde tutto e dalla barca si viene buttati fuori malamente, gettati a mare, con i fan del vincitore che deridono e infieriscono sul malcapitato e gli ex amici che guardano dall’altra parte sperando di essere risparmiati. Nel Pci, nella Dc, nel Psi, ai vertici come in periferia, molti capi si detestavano l’un con l’altro esattamente come oggi Renzi e D’Alema ma all’esterno tutti portavano la stessa linea, quella della maggioranza, e i distinguo erano solo una questione stilistica. Chi sgarrava – anche se un gigante – pagava, umiliato di fronte al mondo, come capitò nel 1956 al leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio obbligato da Palmiro Togliatti a rimangiarsi pubblicamente la critica all’Urss per l’invasione in Ungheria. Ma il capo del Pci costruì il più grande partito comunista dell’Occidente sulla linea del “rinnovamento nella continuità” e non si sognava neppure di rottamare uno come il numero uno del più forte sindacato italiano. Allora come oggi le seconde linee, oggi si direbbe quelle dei fan, soffiavano sulle polemiche, nel servilismo più bieco. Invece di porsi come valore aggiunto del Pd e del Paese Matteo e Massimo, corrosi da un cupo inestinguibile rancore, sono diventati il problema, quanto meno il problema l’uno per l’altro. Renzi pensava di aver chiuso come una pratica d’ufficio, la “questione” D’Alema. E il lider Maximo pensava che bastasse aspettare lungo il fiume il cadavere del giovane segretario-premier. Così non è, né per l’uno né per l’altro. E adesso, tocca a loro due scendere sull’arena, all’arma bianca, per l’ultimo duello.      

Così il referendum costituzionale diventa l’occasione per il duello all’Ok Corral fra il “rottamatore” e il “rottamato”. Renzi si rivolge agli elettori nella logica del “meno peggio”, del suo Pd come l’unica sinistra oggi possibile, del “dopo di me il diluvio”. D’Alema parla al cuore dei militanti per mandare a casa il Matteo  “ducetto” con il suo “cerchio magico” di nani e ballerine, cancellare questo Pd dall’”amalgama mal riuscita” tornando ai sogni di un partito di sinistra strutturato, un Pci riverniciato. Entrambi si odiano, l’uno vuole la fine politica dell’altro, nell’ultima battaglia dove non si faranno prigionieri. Entrambi commettono il più grosso errore della loro vita politica. Invece di lavorare per la “ditta” (come comunque prova a fare Bersani), la affossano, dando modo e tempo agli altri (centrodestra e soprattutto M5S) di ricomporsi e rilanciarsi. Renzi crede che il suo governo e il suo Pd siano in grado di fermare il vento radical-populista che scuote le democrazie europee. D’Alema è convinto che la deriva “moderata” renziana produrrà nuova delusione nei cittadini portando voti ai partiti dell’estrema destra e a quelli populisti e xenofobi quali il M5S, la Lega ecc. destabilizzando la situazione con gravi ripercussioni in Europa. Fra questi giri di valzer c’è l’Italia ferma anzi in retromarcia, con la crescita del Pil che è la più bassa tra i paesi sviluppati in Europa. Mancano vere riforme di sviluppo, le tasse non calano e il debito pubblico cresce. Chi crede che il caos romano del M5S riporti alle politiche gli elettori grillini a votare Pd e dintorni si sbaglia. Chi ha votato M5S non ha votato per il movimento di Grillo ma “contro” gli altri, contro tutti gli altri. Il disgusto degli elettori verso il Pd e verso il centro-sinistra così come verso il centro-destra non è mutato. Per cui un voto in meno al M5S significherà un voto in più nel mare magnum dell’astensionismo. Massimo e Matteo lo sanno ma giocano ai soldatini di piombo.

 

 

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