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Politica
Scissione Pd, Letta piange perché ha visto giusto

Forse Enrico Letta, pur essendo lontano dall’Italia, ha percepito meglio di altri l’errore commesso con la scissione del Partito Democratico. Egli infatti esprime così la sua angoscia e la sua incredulità per le dimensioni del danno provocato: “Ricostruire da tutte queste macerie, per chi ci si metterà, sarà lavoro ai limiti dell’impossibile”.

Forse l’abbiamo dimenticato, ma per molti decenni gli elettori italiani sono stati in maggioranza visceralmente contrari ai comunisti. Hanno votato piuttosto contro di loro, che a favore di qualche altro partito. Questa fu la grande rendita di posizione della Dc ed anche la ragione per la quale, caduto il Muro di Berlino,  Achille Occhetto impose il passaggio dal Pci al Pds: bisognava ad ogni costo togliere quella “c”. E tuttavia ciò non bastò per sbarrare il passo ad un Berlusconi che inalberava semplicemente la bandiera dell’anticomunismo. Era morta la Dc, non era morto il suo elettorato.

Poi quel marchio indelebile fu fatto scolorire da Walter Veltroni il quale riuscì a realizzare l’improbabile fusione dei comunisti mai pentiti e dei democristiani di sinistra. La fusione fu definita “a freddo” e molti dubitarono della sua vitalità, ma offrì considerevoli vantaggi ad ambedue i gruppi: il partito riuscì infatti a farsi sentire come  post-comunista, quasi “altro” dai comunisti, e ciò lo rese presentabile al punto da aprirgli le porte di Palazzo Chigi.

Ecco perché Letta si dispiace tanto. Con la scissione, il partito ritorna alle sue vecchie anime. Quando tanti comunisti lasciano il Pd, rimproverandogli di avere rinunciato ai valori tradizionali del partito, quando personaggi come Epifani lo accusano dettagliatamente di tradimento,  la scissione significa che il Pd non è più qualcosa di nuovo. I postcomunisti, ridivenuti comunisti, vanno con Bersani, mentre il Pd è soltanto un partito di centro, vagamente democristiano, tenuto insieme dall’interesse per il potere.

La sinistra del Pd,  con la scissione, si allontana da Palazzo Chigi e rischia di divenire irrilevante, ma il partito non rischia tanto di perdere i deputati e i senatori che seguiranno Epifani e Speranza, quanto la bandiera che tanti seguivano e che Bersani ha portato via con sé. Da un lato i comunisti di nuovo nel ghetto, dall’altro dei democristiani impoveriti dalla fuga di tanti elettori. Ecco perché “Si sta aprendo un’autostrada a Grillo, a Salvini e al ritorno di Berlusconi”. E chi è colpevole di tutto ciò? Secondo Letta, “La responsabilità maggiore per la rottura ce l’ha il segretario”. I motivi credo siano trasparenti: il comportamento stupidamente provocatorio del Segretario nei confronti dei dissidenti e il fatto di non aver capito, nel momento della crisi, che pur di salvare il partito avrebbe dovuto togliersi di mezzo. Tanto, probabilmente poi avrebbe avuto il modo di ritornare in auge con l’aureola del superiore disinteresse. Un po’ di buone maniere in più, e avremmo avuto uno statista.
Letta è scandalizzato: “Non è possibile distruggere tutto così, sfidare la minoranza e magari essere pure contento se vanno via”. Renzi ha visto gli oppositori come un impedimento alla sua azione di governo, ed è sembrato credere che, andando via, gli lasciassero libero e intatto il potere per il momento in cui lo riconquisterà. Un calcolo molto miope. È vero che la perdita di alcuni deputati e di alcuni senatori, nella morente legislatura, è cosa trascurabile. È vero che, se il governo Gentiloni dovesse cadere, Renzi ne sarebbe contento, perché avrebbe subito quelle elezioni che tanto desidera. Ma l’errore sta altrove. Liberandosi degli oppositori non è che per caso si sia liberato anche dei loro elettori? Si è sbarazzato dei contestatori o delle truppe con cui avrebbe dovuto riconquistare Palazzo Chigi? È sicuro che l’accusa di essere un democristiano affondatore di governi di sinistra non lo marchi a fuoco?

Dinanzi all’entità dei danni, può nascere qualche dubbio riguardo all’equilibrio di Matteo Renzi. Chi è arrogante, chi è insultante, chi è duro nella lotta e nel comando, può anche essere un grande capo: ma soltanto se continua a vincere. Se invece la sua hybris gli fa porre le premesse della sconfitta, c’è il rischio che si tratti di mania di grandezza. Quell’eccesso che ha rovinato tanti grandi, in passato, quando hanno perso la nozione della loro propria umanità e dei loro limiti. Quella sconfinata, quasi patologica stima di sé e delle proprie capacità, che si rifiuta di prendere in considerazione i dati della realtà.

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