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Politica
Tutti i dubbi sull'assemblea del Pd


 
In un dibattito politico in televisione l’impegno di tutti è quello di dimostrarsi convinti, intransigenti, aggressivi al punto da interrompere l’altro, da cercare di metterlo in ridicolo, arrivando infine a gridare tutti, rendendo incomprensibile ciò che vien detto. L’interlocutore è infatti un avversario contro il quale è lecito sparare i colpi più letali di cui si dispone. Quando invece si appartiene alla stessa religione, la discussione acquista necessariamente un altro tono. Innanzi tutto non si può dimenticare – e lo si ricorda continuamente a sé stessi e agli altri -  che si crede negli stessi dogmi. Poi si sottolinea che non si considerano gli interlocutori dei nemici, ma persone cui si è uniti dalla stessa fede. Tanto che le loro differenze d’opinione non possono essere determinate che da un errore in buona fede. Infine l’atteggiamento generale è quello di proporre soluzioni che sono nell’interesse di tutti, anche di quelli che propongono programmi diversi.
In questo senso l’Assemblea del Partito Democratico si è svolta nella chiave di uno scisma. Amiamo tutti il Pd, ma capita che lo amiamo in maniere diverse. E tuttavia non bisogna lasciarsi ingannare dai modi. Si tratta soltanto di atteggiamenti. Come la rissa verbale dinanzi alle telecamere non impedisce ai protagonisti di andare poi a prendere un caffè insieme, magari parlando di calcio, nello stesso modo, nei dibattiti fra cardinali o maggiorenti dello stesso partito, malgrado il buonismo programmatico, la sostanza dello scontro può essere aspra, addirittura all’ultimo sangue.
Nell’Assemblea di ieri la parola più stramaledetta è stata “scissione”, ma se fosse veramente tanto negativa, che necessità ci sarebbe di esorcizzarla? Nessuno ha parlato di armi o di violenza, perché nessuno ha pensato alle armi o alla violenza. Alla scissione invece molti pensano, sia nella maggioranza, sia nell’opposizione.  Dunque qualcuno la desidera. Ma a quale scopo?
Uno dei motivi del contendere – forse il più umano – è derivato dallo “stile” di Matteo Renzi, il quale si è fatto molti nemici mancando di rispetto per i dissenzienti, cosa che gli è stata rimproverata senza giri di parole da Gianni Cuperlo, per citarne uno. Ma gli interventi hanno mostrato che bisogna prendere in considerazione un secondo e forse più valido motivo: l’impressione che la politica del giovane Primo Ministro andasse contro i sacri principi del comunismo, cui molti ancora tengono. Sono stati invocati gli investimenti pubblici, come se lo Stato avesse denaro da investire, o come se in passato essi avessero prodotto lavoro e prosperità; sono state rimpiante le norme più retrive in materia di lavoro – incluso l’“articolo diciotto” – e si è invocato perfino il nome di Keynes, come se tutta l’Europa non se ne stesse tenendo accuratamente lontana.
Forse veramente una buona parte della base e dei maggiorenti del Pd reputa che Matteo Renzi non sia sufficientemente “comunista”. Ed anche che questa sia la causa della fuga dal tesseramento e dalle sezioni. Se ciò fosse vero, chi da sempre è anticomunista, dovrebbe augurare da un lato ogni successo a Renzi, dall’altro che la minoranza lasci il partito e vada a sbattere insieme con la sinistra estrema. Ma è proprio così?
E i dubbi non finiscono qui. Gli errori di stile di Renzi sono stati innegabili.  Non ha espulso personaggi come Fassina o Civati, ma li ha trattati in modo tale, che se non se ne fossero andati avrebbero perso la faccia. La fronda acre e intransigente che ora si trova a fronteggiare non nasce dal nulla. Ma è l’acrimonia che ha spinto alcuni ad aggrapparsi alle rivendicazioni politiche vetero-comuniste, oppure sono le rivendicazioni politiche vetero-comuniste che approfittano dello stile peggio che criticabile del giovane leader? In che misura, poi, pesa lo sdegno per il contrasto fra le spudorate vanterie di Renzi, e la grigia, drammatica realtà del Paese?
Probabilmente Renzi uscirà indenne dalla contestazione, perché essa – sinceramente o strumentalmente – si è coniugata con un’offerta politica improponibile. Il vento della storia non gonfia certo le vele di Jeremy Corbyn.
E se così stanno le cose, che interesse ha avuto il Segretario dimissionario a far credere che avrebbe voluto far cadere il governo per andare subito alle elezioni? Non teme l’accusa di assassino seriale dei governi del suo partito? “Gentiloni, stai sereno”?
Del resto, non pare che la stella del giovane toscano sia talmente splendente da potere contare su un sicuro successo nelle urne. A meno che lui non tema che in un futuro più lontano andrebbe anche peggio. Chissà.
La triste conclusione è che forse ci si deve augurare la fuoruscita degli estremisti di sinistra, affinché il partito possa continuare a fare una politica non irragionevole. Anche se il suo blasone “di sinistra” dovesse soffrirne. E sempre sperando che non ci mettiamo nei guai con l’Europa.

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