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Aldo Moro centenario dalla nascita - Il discorso di Giannicola De Leonardis

L'intervento del Presidente del Gruppo Area Popolare, Giannicola De Leonardis, nella seduta del Consiglio regionale dedicata al centenario della nascita di Aldo Moro.

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“E’ un intervento molto sentito, quello che mi accingo a fare, perché il mio racconto, il mio ricordo di Aldo Moro è per me un viaggio in ricordi anche personali.

Mio padre Donato, una vita spesa nella Democrazia Cristiana, parlamentare per cinque legislature consecutive dal 1958 al 1979, è stato legato da un rapporto non solo di profonda affinità politica, ma anche e soprattutto di amicizia vera, con il grande statista. Iniziato nei lontani tempi dalla comune frequentazione della Fuci, negli anni Trenta; consolidato dal servizio militare e reso granitico dalla comune militanza e dall’esaltante stagione politica che ha traghettato l’Italia dalle macerie della guerra al periodo del boom economico, fino all’incubo degli anni di piombo, dei 55 giorni di prigionia di Moro vissuti con angoscia dal suo “carissimo” Donato. Il quale non esitò a scrivere a Indro Montanelli, uno dei più convinti sostenitori della linea della fermezza nella negazione di qualsiasi trattativa con i brigatisti, per rimarcare il suo aperto dissenso. Mi permetto di leggere alcuni passaggi della lettera pubblicata da Il Giornale:

“Egregio Direttore, sono assiduo e attento lettore dei suoi scritti (…). Ciò però non mi trattiene dall’esprimere il mio dissenso dalla sua opinione diretta a sostenere una linea di assoluta intransigenza nella drammatica vicenda di Aldo Moro. In sostanza tale linea porta a ritenere che non è assolutamente possibile non solo accogliere una qualche richiesta dei rapitori, ma neppure ipotizzare una qualsiasi presa di contatto con essa, pena la catastrofica umiliazione dell’austero e solenne prestigio dello Stato. Essa non tiene in nessun conto il supremo valore e l’incommensurabile dignità della vita umana che è indeclinabile dovere di uno Stato moderno tutelare e salvare. Un atteggiamento rigido può anche ritenersi astrattamente valido, ma tale non è nei riguardi di pochi e spietati terroristi, mentre una condotta più flessibile non comprometterebbe la stabilità delle istituzioni repubblicane, che poggia sul consenso della stragrande maggioranza dei cittadini. Una tregua non significa capitolazione, se vi è la ferma volontà politica di sradicare, con mezzi efficaci, la mala pianta. E la dignità dello Stato non si tutela e non si consolida, abbandonando nelle grinfie di fanatici pseudo-rivoluzionari e destinando a tragica fine un eminente statista, bensì rimuovendo le cause generatrici dello sconvolgente fenomeno terroristico e organizzandosi seriamente per sconfiggerlo. Perciò dopo attenta riflessione sulle drammatiche vicende del 16 marzo e sui suoi imprevedibili sviluppi, ritengo che nulla debba restare d’intentato per salvare la vita di Moro.
Questa mia opinione si basa non solo sulla positiva valutazione dei grandi servizi che il presidente della D.C. ha reso e può ancora rendere alla democrazia italiana, ma è anche confortata dal parere di illustri giuristi e da precedenti comportamenti in casi analoghi in Italia e all’estero. Esso trova consenso in larghi strati popolari, fra i quali vi sono anche numerosissimi lettori del suo giornale”.

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Il celebre giornalista, nella risposta intransigente nella sostanza ma garbata nella forma, sottolineò il “dramma che vivono in questi giorni i familiari e gli amici più intimi del presidente della DC, sui quali gli affetti possono giocare un ruolo maggiore che le considerazioni politiche. E so che lei, caro De Leonardis, è fra gli amici di Moro uno dei più vicini e disinteressati. Non mi risulta infatti che il suo monoteismo le abbia procurato vantaggi politici negli anni passati, quando lei era deputato della DC e Moro Segretario del partito e Capo del governo. Tutto questo le fa onore, e desidero dargliene atto pubblicamente”.

Non bastò, niente bastò per salvare la vita di Aldo Moro, per cambiare il finale di una storia che sembrava già scritta, e che ancora oggi presenta tanti lati ancora oscuri. Moro venne omaggiato ancora da mio padre in un libro sofferto e struggente, contenente le lettere che rendono ancora più evidente e lodevole “L’umanità di Aldo Moro”. Parole ricche di affetto e di profonde affinità elettive, rimarcate da due uomini che si ponevano riflessioni sul senso della vita, sul loro essere cattolici e parte di un mondo ancora indecifrabile. “Basta avere molta fede e molto amore e desiderio a fare il bene, anche se ci appare difficile ed estraneo; basta chiedere alla vita, quando più forte è il tumulto in noi, che ci riveli il suo mistero di pace. E la rivelazione viene, per vie insospettate, strano, chiusa forse ancora, tanto è difficile capirla, ma viene. Bisogna guardare in fondo alle anime, alla nostra ed altrui: starne a sentire il richiamo disperato talvolta, l’attesa ansiosa, l’amore inespresso. Queste cose parlano in modo inequivocabile. La vicenda di ogni giorno è nulla, benché possa costare a superarla. Tutto è aver fede, chiudere gli occhi e fare ogni istante coraggiosamente il nostro salto nel buio, per ritrovarsi vivi, per ritrovarsi uomini. Con una gran pena certo che non passa più (ed è per questo che non siamo più fanciulli), ma con una speranza che può farci ancora sorridere. C’è tanto lavoro da fare”, scriveva Moro nell’aprile 1943. “Che sia lungo o breve non importa: purché si voglia percorrere la strada fino in fondo, purché sia questa volontà non egoismo ma amore”.

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Ecco, la mia formazione giovanile e politica è stata cercando di seguire le orme e i valori trasmessimi da mio padre, la sua passione e il suo e mio modo di intendere la politica come servizio, ispirata dalla dottrina sociale della Chiesa, e con un modello per me indimenticabile: Aldo Moro. Tutti conosciamo il suo spessore, la sua capacità di immaginare un futuro e tracciare una direzione per altri inimmaginabile, come il compromesso storico, l’apertura al Pci di Enrico Berlinguer che tanto fece discutere e che probabilmente fu la sua condanna a morte, troppo avanti rispetto ai tempi, eppure così necessario in quei cupi anni di piombo. Il suo impegno per la valorizzazione e l’inserimento dei giovani nella politica e nella società (“Io sono qui, per dirvi che sentiamo questa vostra maturità e presenza, che abbiamo fiducia in voi, che cogliamo i tanti problemi che i giovani propongono, che siamo pronti a lavorare in ogni campo, perché si dia risposta ad ogni interrogativo e sia soddisfatta, nei limiti delle nostre possibilità, ogni vostra legittima esigenza.

E’ segno questo della crescente partecipazione dei giovani, in posizione di responsabilità, alla vita culturale, sociale e politica del Paese. Essi non sono più solo destinatari di provvidenze, passivi beneficiari di una iniziativa burocratica dello Stato, in questo caso veramente inconcepibile. Invece, secondo una concezione moderna e democratica della società e dello Stato, i giovani sono, per la loro parte, protagonisti, gestori dei propri interessi, custodi dei propri ideali, liberi creatori del proprio avvenire e, in definitiva, di quello del Paese”, disse in un accorato intervento al convegno nazionale del Movimento giovanile della Democrazia Cristiana, tenutosi a Bologna nel marzo del 1968). Per il Mezzogiorno, il suo e nostro Mezzogiorno, mirabilmente rimarcato nei discorsi tenuti da presidente del Consiglio in occasione delle cerimonie inaugurali della Fiera del Levante, negli anni Sessanta e nel 1975, la sua ultima volta. Per il mondo della cultura e dell’università, per il prestigio dell’ateneo barese di cui era docente di riconosciuta eccellenza. Per l’Italia tutta, che ha potuto beneficiare a livello internazionale del suo prestigio e della sua autorevolezza, del suo spessore politico e umano, quello che ho avuto modo di conoscere direttamente e di cui ho voluto rendervi partecipi attraverso la mia testimonianza.

Avrebbe compiuto 100 anni e sono convinto che, se l’epilogo di quel rapimento ancora tutto da chiarire, e che rappresenta il momento più cupo della Notte della Repubblica come la definì Sergio Zavoli, fosse stato diverso, la nostra del nostro Paese sarebbe stata ben diversa. E una persona come Moro avrebbe continuato a rappresentare un riferimento e un baluardo di quella Politica decenni dopo erroneamente svenduta al marketing o demonizzata da populisti e demagoghi improvvisati, da presunti leader che si sono succeduti uno dopo l’altro senza mai minimamente sfiorare il suo livello, il suo rigore, la sua coerenza, il suo coraggio.

Ricordare Moro oggi è una bellissima iniziativa, da parte di questo Consiglio. Ma mi permetto di aggiungere che il modo più bello per ricordarlo, nei giorni e negli anni a venire, sarà cercare di seguire il suo esempio: rifuggire slogan e agire con concretezza, non seguire l’umore o il sondaggio di giornata ma assumersi la responsabilità di scelte e decisioni destinate a incidere profondamente per l’avvenire. Guidati e ispirati da valori e ideali profondi, non barattabili e cancellabili”

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