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"Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" di Oscar Iarussi

Un “alfabeto dei sogni” per inquadrare Federico Fellini, nel centenario della sua nascita. "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (ed. Il Mulino, pp 256, euro 16) è l’ultima impresa di Oscar Iarussi, giornalista e critico cinematografico, presentata nel foyer dell'Anche Cinema con l’editore Alessandro Laterza.

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Un volume che ripercorre l’immaginario, la poetica, i luoghi del cuore, le donne e i sodalizi del regista riminese, dalla V di Vitelloni, alla R di Rex, alla A di Amarcord e alla G della sua Giulietta. Un viaggio tra le parole, caleidoscopico e irregolare come i sentieri tracciati da Fellini.

“Scegliere le lettere - confessa Iarussi - è stato un vero tormento”. Un tormento necessario, però, anche per far luce sull’eredità felliniana. Prima di tutto lessicale. Scopriamo così che "felliniano" - è l'attributo che ha tormentato il regista, fino a indurlo a confessare con tono schernitore: "mio babbo voleva che facessi l'avvocato e mia mamma sperava che facessi il dottore, ma io ho scelto l'aggettivo: il felliniano" - oggi associato al grottesco e al caricaturale - che è quanto di più distante da Fellini stesso: basterebbe pensare a quanto siano complicati e postmoderni 8½ e La dolce vita.

È proprio soffermandosi sulla potenza del linguaggio di Fellini che si entra, a piccoli passi, nel suo universo. Con la sua "propensione pascoliana" per i diminutivi - "Giuliettina, Marcellino" - emerge infatti il tentativo di fraternizzare col bambino che è in ciascuno di noi, perché è l’infanzia una delle chiavi del cinema felliniano.

flaiano fellini

Ed è anche grazie alla tenerezza dell’infanzia che si comprende il rapporto di Fellini con i suoi "fratelli": dallo scrittore Ennio Flaiano - altro cantore eterodosso dello Stivale, cui Iarussi tributa la lettera F -  fino a Pasolini. Un legame fortissimo, quello con il bolognese, tra due persone distanti, scomode e segnate in modo indelebile dall’essere provinciali: nel Libro dei sogni Fellini dipinge Pasolini, con pennellate delicate, come un fratellino nella sua cameretta. Al suo vero fratello - Riccardo, che compare nella scena dei Vitelloni in 'Lavoratori' e a cui Federico sconsiglierà di fare cinema - si riavvicinerà invece solo al tramonto delle loro esistenze, finite a distanza di pochi mesi negli stessi corridoi del Policlinico di Roma. 

L'essersi così intimamente connesso al popolo, l'aver fatto "la fortuna dell'Italia", però, per Iarussi, non rende Fellini un personaggio "pop" o facilmente 'collocabile'. Non almeno nell'accezione moderna, non con le esigenze ed i consumi di oggi. Il successo di Fellini è stato certo strabiliante, La dolce vita è il sesto film italiano più visto e amato in assoluto, con tredici milioni di spettatori (per intenderci, il doppio delle cifre zaloniane di Tolo Tolo).

Ma Federico non si può imbrigliare in categorie definite, attraverso numeri e dati. Lo si può fare solo con un alfabeto. Fellini è un cronista visionario, che ha fatto cinema come si sarebbe fatto giornalismo - non a caso il Mastroianni de La dolce vita è un giornalista -: racconta magneticamente un'Italia in trasformazione. E lo fa con estrema libertà creativa, sovvertendo ogni canone.

Sarà cronista visionario anche nel trionfo di Amarcord (1975), un film che, a differenza di ciò che la vulgata ritiene che sia, per Iarussi è fortemente politico (nella pellicola risuona l'Internazionale e viene raffigurato il fascismo nel senso di "eterna adolescenza", cogliendo quella dimensione autentica e permanente che Savinio, in un'intuizione geniale, definì "virus dannunziano") e celebrativo del senso di comunità, con la domanda straziante "cosa farai lontano dal borgo?", che va ben oltre la semplice nostalgia. Vale lo stesso per il Casanova (1976) - con il "candelone spermatico" Sutherland, preferito a Mastroianni - che è un'altra satira pungente del carattere italiano, spesso non compresa dal pubblico.

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Iarussi dedica spazio e tempo anche alla "deriva senile" di Fellini, pian piano allontanato dalla cinepresa. Gira, per l'ultima volta sulle melodie di Nino Rota, un film sull'armonia perduta. Il canto del cigno, dopo l'ictus, è La voce della luna, intriso di malinconia e come sempre graffiante: c'è Berlusconi, presidente del Milan, che prende a calci un cameriere ogni volta che entra in sala. Eccola, la vena visionaria, satirica e (anche) politica evidenziata da Iarussi. A proposito di berlusconismo: qualcuno dice che Fellini ipotizzò un soggetto di Berlusconi che, comprando tutta Venezia, ribattezzava "Canale 5" il Canal Grande.

Fellini libro

"La mia 'fissa' per Fellini è stata una 'fissa' tardiva", giura Iarussi. "La mia generazione è nata e cresciuta con la nuova Hollywood, con Spielberg. All'epoca non consideravo Fellini troppo interessante. Poi l'ho rivisto con lenti non intellettuali, ma emozionali. Tutte le nuove generazioni dovrebbero cercare su Youtube degli spezzoni felliniani: è uno dei modi di raccontare la storia d'Italia".

Ciliegina: l'evento si chiude con una "sorpresa visionaria", con la proiezione secondo atto di Boccaccio '70, che Fellini girò subito dopo 'La dolce vita', per ironizzare proprio sui censori del film appena uscito. Sullo sfondo metafisico dell'Eur, Peppino De Filippo è il moralista dottor Mazzuolo, ossessionato da una gigantografia pubblicitaria, osé e onirica, di Anita Ekberg. E alla Ekberg, naturalmente, Iarussi dedica la lettera E del suo alfabeto.

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