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Amos Oz, il ricordo e il sigillo della Città di Bari

E’ morto a 79 anni Amos Oz, uno dei più grandi scrittori contemporanei. Era nato a Gerusalemme nel 1939 ed era cresciuto nel kibbutz Hulda; aveva studiato filosofia e letteratura all’Università ebraica di Gerusalemme. Nel 1960 aveva sposato Nili (da lei avrà tre figli) e l’anno successivo, a soli 22 anni, aveva pubblicato i suoi primi lavori. In oltre 50 anni di attività, ha scritto oltre 18 opere in ebraico, tra romanzi, racconti e saggi, insieme a 500 articoli ed editoriali per riviste israeliane e internazionali. Tra i suoi libri più famosi, “La scatola nera”, “Una storia di amore e di tenebra” e “In terra di Israele”.

Amos Oz morto

Influente e indiscusso intellettuale, era una delle voci critiche più ascoltate in patria e all’estero. L’esperienza sotto le armi - prima con la leva obbligatoria, poi durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967 e quella dello Yom Kippur nel 1973 - l’aveva portato ad essere un attivo fautore del dialogo tra israeliani e palestinesi. Dei conflitti tra lo Stato ebraico e i suoi vicini arabi ne aveva anche scritto a lungo. La sua voce si era levata anche negli anni più recenti, in occasione delle guerre in Libano e nella Striscia di Gaza, esortando a intraprendere la strada del dialogo e della moderazione.

Le sue opere sono state pubblicate in 45 lingue in 47 Paesi nel mondo e ha ricevuto numerosi premi e onorificenze, tra cui la Legion d’Onore francese, il Goethe Prize, il Premio Principe delle Asturie, l’Heinrich Heine Prize e l’Israel Prize.

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Ho avuto la fortuna di conoscerlo, quando venne a Bari, in occasione della prima mondiale al Teatro Petruzzelli (da poco restaurato dopo il drammatico incendio), dell’opera tratta dal suo romanzo “Lo stesso mare”, del maestro Fabio Vacchi, (il compositore di musica contemporanea italiano più eseguito nel mondo), con la regia di Federico Tiezzi, la direzione d’orchestra di Alberto Veronesi e le scenografie di Gae Aulenti.

Lo scrittore israeliano non volle mancare all’evento barese. Ricordo ancora oggi l’emozione suscitata da alcune sue riflessioni: “La letteratura è sogno, scrivere e leggere è come sognare. L’uomo affabulava prima di inventare l’alfabeto, raccontare storie è un bisogno umano come sognare e fare sesso. L’uomo si differenzia dalla bestia per la sua capacità di sognare. I sogni possono essere mostruosi, ma senza sogni la vita è un deserto”.

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Anche per questo non smetteva di ringraziare il compositore bolognese, “Per aver realizzato il sogno dell’autore”. Un lavoro che “avrebbe voluto fare il musicista mancato Oz, ma che non avrebbe saputo fare meglio”.

Il mare, il deserto, il giardino. Tre elementi della più intima identità ebraica, uno per ogni atto dell’opera, che fanno da sfondo a una quotidianità israeliana molto più universale di quanto in troppi ancora non vogliono riconoscere. Un Eden, una culla di pescatori e una landa di sabbia, per celebrare l’amore e la vita in tutte le loro declinazioni. Perché anche il deserto diventa vita, quando si decide di abitarvi per amore di un figlio asmatico, come è successo allo stesso autore quando decise di stabilirsi nel Neghev.

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Tre simboli dei regni canonici della Natura: animale, minerale e vegetale che si fanno incubatori di vita e ingredienti della più autentica identità mediterranea. Così lo stesso mare bagna Tel Aviv e Bari, ed è lo stesso sale ad arricchire sapienze e sapori di antiche radici comuni. Lo stesso vento a contaminare i profumi di giardini lontani tra loro e, attraverso il lamento delle diomedee, a rimandarci echi mediorientali di affascinanti e sconosciuti arabeschi musicali. Così come, nel silenzio più assoluto del deserto, sarà emozionante percepire il suono delicato di un flauto che accompagna il volo di un bruco fattosi farfalla, il borbottio vellutato di un fagotto che accarezza le angosce di spiriti mai rassegnati, o l’agrodolce acuto di un violino che sostiene l’esile filo di una speranza.

Amos Oz Emiliano

Nell’efficace, funzionale e “futurista” sintesi scenografica di Gae Aulenti, la sezione di umana realtà quotidiana, raccontata in prosa e poesia ma pensata in musica e danza da Amos Oz, si scompone come in un quadro di Picasso, di Braque o di Mondrian. Per andare oltre gli stereotipi del passato e nella modernità reinventare nuove forme di linguaggio, anche musicale, più in sintonia col contesto e le prospettive “digitali” delle nuove generazioni. Trattandosi di una “opera nuova” - si disse - sarà necessario rivederla e soprattutto riascoltarla più volte, ma questa è la cifra del lavoro di Fabio Vacchi, della regia di Federico Tiezzi e dell’interpretazione fedele di Alberto Veronesi con l’apprezzatissima Orchestra del Petruzzelli.

Una e trina anche la narrazione, che si fa protagonista maieutica di una rappresentazione polifonica, policromatica e poli-caratteriale. Una sorta di scomposizione del coro classico del teatro greco, col narratore 1 (un eccellente Sandro Lombardi) unico elemento fisso incastonato nella scenografia, a cui si alternavano gli interventi non solo vocali di Giovanna Bozzolo e Graziano Piazza, per portare in scena nientemeno che lo stesso scrittore Amos Oz.

Amos Oz

Una rete che cede e si tende per ammortizzare e rimandare il caleidoscopio di vocalità e di temi musicali dell'opera che, nell’azione scenica introspettiva, ruotano ancora attorno a una “triade” di tonalità Soprano. Dove ai tempi evanescenti della morte-Nadia ed alle esitazioni confuse e spregiudicate di Dita, fa da contraltare il carattere più forte e maturo di Bettin Carmel sottolineato da un timbro decisamente più corposo. Lo scoglio a cui ancorare le nevrosi, le ansie e le paure di Albert Danon, il protagonista a corto di spirito d’iniziativa.

Guidati dal faro del compromesso e utilizzando, col medesimo ritmo intermittente, le gomme metaforiche dell’ascolto e della perseveranza, le stesse da sempre usate da Amos Oz nel suo impegno per la Pace, il miracolo si compie. Le prime linee di confine cominciano ad essere meno marcate. L’universalità del gioco di scena e dei linguaggi musicali rendono meno evidenti le distinzioni tra prosa e poesia, opera e tragedia, vita e morte, autore e personaggi, deserto e giardino. Un buon auspicio per ben altre linee di confine, diventate addirittura muri di vergogna.

Oz Vacchi

“Ponimi a sigillo sul tuo cuore” canta Nadia nel secondo atto, traendo dal Cantico dei Cantici una delle più belle dichiarazioni d’amore mai pronunciate. La stessa che Bari volle estendere a Fabio Vacchi ed Amos Oz con la consegna del Sigillo della Città. Grazie a loro e a tutti gli attori del progetto “Lo stesso mare”, fu chiaro - merito anche della coraggiosa Direzione Artistica dell’allora Sovrintendente, Giandomenico Vaccari - che il futuro apriva le braccia al Petruzzelli. Con la forza del moderno, l’audacia della gioventù e tutte le controversie dell’amore. E Bari, tra qualche titubanza, si apprestava comunque ad amarlo!

(gelormini@affaritaliani.it)

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