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Quando i 'lampascioni' salvarono una Cattedrale dall'ira di Federico II

L’astio di Federico II verso la città di Troia - talvolta attenuato da una sorta di controverso sentimento d’amore/odio - affonda verosimilmente le radici nel rapporto conflittuale del Puer Apuliae col suo tutore, Gualtiero di Palena (detto Paleario), Cancelliere del Regno e Capo del Consiglio di Reggenza, che Papa Innocenzo III aveva nominato, all’indomani della morte di Enrico VI di Svevia, quando il futuro Imperatore aveva ancora solo tre anni. Gualtiero Paleario, in quel tempo, era Vescovo di Troia (1189 - 1201).

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Una spina nel fianco - quella di Troia - nella dinastia Normanna fin dai tempi di Roberto il Guiscardo, che a Troia aveva fatto costruire un castello, quale residenza estiva e testimonianza dell’autorità imperiale, e dove la lotta per le investiture aveva reso più tesi i rapporti con il papato, tanto da spingere Roma ad avocare direttamente al soglio petrino la nomina del Vescovo di Troia e di far voto che “Quel castello un giorno sarebbe stato distrutto”.

Nel 1227 Gregorio IX - dalla Cattedrale di Bitonto - scomunica Federico II, che non si decide ad intraprendere la Crociata, che il Papa voleva fosse indetta in tempi brevi. Immediatamente le città fedeli al Pontefice gli si rivoltano contro e Troia, più di altre, manifesta con spavalderia la censura, arroccandosi nelle sue mura invalicabili e negando ogni accoglienza all’Imperatore.

Allorquando lo Stupor Mundi nel 1229 tornerà dalla Terra Santa, come re di Gerusalemme, riconquistata senza combattere una sola battaglia, ma grazie a un accordo diplomatico con il sultano Ayyubide al-Malik al-Kamil - nipote del Saladino - le sorti delle città cosiddette ‘papaline’ potevano dirsi segnate.

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La reazione di Federico II anche verso l’amata/odiata Troia, infatti, non si fa attendere. In particolare quando, col vento mutato e temendo la vendetta delle famiglie dei Damma e dei Tancredi - a lui fedeli - i troiani uccidono Rainaldo Tancredi e Riccardo Damma.  L’Imperatore alle prese con la distruzione delle mura di Foggia, costruite in sua assenza e senza il suo consenso, è furioso: intima la fornitura di un consistente vettovagliamento, per le sue truppe, e avverte i ribelli dei rischi a cui vanno incontro.

“Ho sempre ammirato l’antica e gloriosa storia di questa città e le gesta eroiche dei suoi coraggiosi combattenti”, manda a dire, “Ma poiché avete deciso di mettere la vostra mente e la vostra intelligenza al servizio dei miei nemici, vi scongiuro di ravvedervi in tempo e di non costringermi a considerare anche voi come tali. Evitate dolorosi, ulteriori e inutili spargimenti di sangue”.

E poi con sottile, minacciosa e mirata metafora, degna d’un “maestro” come il tutore inclemente Gualtiero di Palena, incalza: “Evitate ai vostri figli le lacrime amare della sconfitta e della vergogna. Evitate loro di andare raminghi per il mondo, elemosinando il pane duro dell’esilio. Evitate loro di bere il calice amaro dell’aceto, riservato ai banditi dall’Impero”.

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“Tornate in voi! Date prova della vostra ponderata prudenza. Non permettete, Dio non voglia, che i miei Mori vengano a danzare e brindare sulle ceneri delle vostre case distrutte. Perché il primo a rallegrarsene sarei proprio io, il vostro FEDERICO, re di Germania e di Gerusalemme, Imperatore del Sacro Romano Impero”.

Il Consiglio cittadino viene riunito d’urgenza. La misura è colma e il ferro va battuto e piegato ora che è sotto il maglio tra diversi fuochi. Si decide di rispondere per le rime e la maggioranza propende per l’invio di un consistente carico di “cipolle”, “pane duro e stantio” e “aceto di vino nero”. Il messaggio, condito da una buona dose di coraggioso orgoglio e di risentita spavalderia dovrebbe essere percepito ‘forte e chiaro’.

Ma l’arguzia subdola e raffinata di un cancelliere, in sospetta vicinanza alla famiglia Damma - magari per guadagnare una fiducia latente nei confronti della sua famiglia e garantirsi un margine d’azione, che si rivelerà fatale per le sorti della città, avanza una proposta “audace”.

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Sostituire le cipolle con un abbondante carico di “lampascioni”. L’obiettivo è duplice ed è degno di un disegno machiavellico: sempre di una specie di cipolla si tratta, ma gli effetti sulla “tenuta” delle truppe potrebbero rivelarsi decisamente “debilitanti”. La piega incerta e prolungata verso altri focolai di rivolta a Federico II, non potrà che giovare alla burrascosa situazione nella cittadina della Grande Cattedrale.

La proposta è accolta tra risate sguaiate e urla entusiaste, e nonostante la diffidenza di qualche vecchio notabile, la spedizione beffarda viene approntata e fatta partire alla volta del campo di battaglia foggiano.

Ciò che non era stato preso in considerazione - però - era che l’Imperatore Svevo, cresciuto tra gli arabi di Palermo, apprezzava fin troppo i lampascioni, fino alla golosa ingordigia, tanto da ritenerli addirittura il ‘non plus ultra’ della tavola, se accompagnati da “corposo” vino di Uva di Troia.

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Il gesto, pertanto, fu apprezzato e ritenuto persino una sorta di sottile ‘deferenza’ verso il sovrano adirato. Ma non bastò a salvare la città, perché Federico II appena possibile provvide a raderla al suolo, salvando soltanto i palazzi delle famiglie traditrici, che gli aprirono le porte di Troia e la Cattedrale: quale testimonianza di perenne bellezza, a cui la sua sensibilità non era stata mai estranea. Ben sapendo, che salvando la Basilica avrebbe - al tempo stesso - reso al mito senza tempo la magnanimità del suo gesto e - dal suo nobile “trono” -  continuato a gridare la perenne inaffidabilità di quel “covo di serpenti”.

Ma ancora più irresistibile per il Puer Apuliae - che comunque mai avrebbe sfregiato un siffatto gioiello architettonico - fu il poter rendere 'perenne' l'immagine metaforica di una Cattedrale, dedicata alla Beata Vergine, che avrebbe continuato a schiacciare la serpens longa che si sarebbe per sempre allungata sotto i suoi piedi!

(gelormini@gmail.com)

 

Versi attribuiti a Federico II nella risposta alla Città di Troia

rea di vanagloria e di indomito orgoglio anti-imperiale

Federico II enrico VI
 

 

Troia, grates ago quod munera grata donasti

Coepis et aceto pane pia nata cibasti

Nostra messi adhuc viridis suo iacet in agro

Ideo messoribus nondum cibaria paro

Dona quae rimittimus pro vobis reserbo

Donec redimibus Urbs tua metenda sit herba.

Troia, serpens longa, multo repleta veneno

Adhuc te faciam passu procedere levi

Troia, serpens furens, multo repleta furore

Te faciam numquam extemptam moerore.

Troia, sus lutosa, mater et alumna doloris, 

Capitis et caudae trunca, stabis omnibus horis. 

Federico II Troia
 

Troia, de promissis si nostra cura desistat

Non sceptrum manibus, nec corona capite sistat.

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Troia, io ti ringrazio che mi mandasti così graditi doni:

Tu tanto pia mi cibasti di cipolle, di aceto e di pane.

La nostra messe giace ancor verde nel campo

E perciò non preparo ancora le cibarie per i mietitori.

I doni che rimando li riservo per te

Quando ritornerò a mietere come erba la tua città.

Troia, lungo serpente ripieno di molto veleno

Ancora ti farò procedere con passo lieve 

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Troia, serpente furioso ripieno di molto furore

Mai ti farò andar esente da dolore.

Troia, scrofa fangosa, madre e alunna del dolore

In tutte le ore starai tronca di capo e di coda.

Troia, se trascurerò di compiere ciò che ho promesso

Non mi resti in mano lo scettro né la corona sul capo.

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