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Salento, le vele dei ricordi issate verso il Libano

Recentemente, mi sono rivolto a una giovane collega in servizio, e soprattutto cara amica, nell’intento di cercare di procurarmi il recapito telefonico di un altro “fu bancario”, Cesare P., conosciuto più di mezzo secolo fa a Messina, tuttora domiciliato, da quiescente, nel solare e luminoso capoluogo peloritano, antico sodale in una manciata di stagioni belle della comune giovinezza, che, in quanto tale, in occasione di un’imminente puntata in Sicilia, mi riprometto, volutamente ed espressamente, di rivedere e riabbracciare.

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Grazie all’amica D., sono rapidamente riuscito a ottenere l’informazione che m’interessava, ma, nello stesso tempo, sono purtroppo venuto a conoscenza anche di una notizia non lieta.

 

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All’atto della mia assunzione, il 2 gennaio 1961, presso la filiale di Taranto del Banco di Roma, fra il personale in attività, emergeva un gruppo di giovani, appena più grandi d’età, provenienti da fuori, scapoli, alloggiati presso famiglie del posto e pendolari, ogni fine settimana, da e per i rispettivi luoghi d’origine, insomma con sistemazione e organizzazione analoghe alla mia, salvo che, mentre io avevo concordato con la padrona di casa il trattamento di pensione completa, loro, al contrario, non consumavano i pasti presso i nuclei che li ospitavano.

Per tanto, avevano sottoscritto una sorta di convenzione, a condizioni diciamo così calmierate, con una trattoria, “Da Rosetta”, ubicata nelle vicinanze di via Giuseppe De Cesare, dove, in quei tempi, si trovava la suddetta sede di lavoro (adesso, il relativo stabile è in gran parte occupato da un Megastore Mondadori), in cambio di cinque consumazioni di pasti per settimana: menù, ovviamente, non da cinque stelle e, tuttavia, garantito come dignitoso e genuino.

La comitiva di colleghi, mi vengono a mente Antonino, Gino, Franco, Stefano, Renato, Angelo e Vito, anche per effetto della giovane età, si distingueva particolarmente e uniformemente per una caratteristica, ovvero lo spiccato appetito.

Una volta seduta a tavola, bastava un baleno perché il cestino contenente la rituale e ordinaria scorta di pane finisse svuotato e, avanti che il cameriere arrivasse a servire il primo piatto, nella sala dell’esercizio riecheggiasse l’invocazione – richiesta: “Pane, pane!”.

In tale richiesta, prevaleva e si faceva sentire in modo netto la voce del commensale Vito, evidentemente, nel gruppo di avventori/colleghi, buona forchetta, nel senso di mangione, in testa alla classifica.

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Ora, avvenne che, a distanza di un paio d’anni, l’esercizio in parola chiuse i battenti, verosimilmente per motivi gestionali d’ordine generale e, nondimeno, la dianzi ricordata domanda di pane a dismisura, specialmente per voce dell’amico Vito, fu prontamente presa, da un altro compagnone arguto e scherzoso, Franco, come spunto e pretesto per addebitare al principale reclamante l’ingloriosa fine della trattoria “Da Rosetta”.

Vito, di cognome D.C., nativo della zona di Bari, ebbe a precedermi di un paio d’anni nel metter su famiglia; ricordo nitidamente che, all’arrivo del mio primogenito Pier Paolo, egli si presentò amabilmente e discretamente a casa mia, insieme con la moglie e la sua figlioletta Elisa.

Trasferitomi da Taranto, successivamente, non ho più avuto notizie del collega in questione, sino a un decennio addietro, quando, presso una filiale di Lecce del medesimo nostro Gruppo bancario iniziale, ho casualmente incontrato e conosciuto un secondo nato D.C., Piero, lì in servizio.

Ora che Vito se n’è andato lassù, mi piace immaginare, nel più lussuoso ristorante che esista, con servizio di pane e d’ogni altro ben di Dio a suo completo piacimento, a me, “fu bancario” ancora qui, non resta che ricordarlo con affetto e nostalgia e lanciargli un amichevole e fraterno ciao.

 

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Per temperamento o natura in sé o DNA trasmessomi dai miei genitori, come meglio aggrada motivare, non sono mai stato un tranquillo, un “acqua cheta”, bensì, già da piccolo, perennemente, un soggetto proteso a fare, guardare, dire, pensare, cambiare, osservare e cercare orizzonti nuovi, sfidare, mettersi alla prova con l’imprevisto.

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Con tale abito, mi sono, ovviamente, calato pure nello svolgimento dell’attività lavorativa, prospettive e attese incluse.

Trascorso appena un biennio dall’ingresso in banca presso la filiale di Taranto, improvvisamente, decisi di far domanda, non per un normale trasferimento nell’ambito del territorio italiano, ma, addirittura, per l’assegnazione a un’unità dell’Istituto operante all’estero: all’epoca, fra le altre, ne erano attive in Libia, Turchia, Eritrea e Somalia.

Il Direttore ricevette in silenzio la mia istanza e la inoltrò all’Ufficio del Personale di Roma. A distanza di poco tempo, mi comunicò la relativa risposta, che, in sintesi, diceva che la richiesta non era ritenuta meritevole di considerazione, a motivo dell’ancora modesta mia esperienza.

Con la mia indole e il fuoco del ventenne, rimasi male di fronte a tale esito e, ancora maggiormente, più avanti, nell’apprendere che, da Roma, avevano deciso di spostare all’estero un mio collega d’ufficio, peraltro della classe 1930 rispetto alla mia 1941 e con correlata maggiore anzianità, e conseguente esperienza, di servizio.

Scivolarono sul calendario alcuni anni, nel 1965, da Taranto, fui inviato, in missione semestrale a scopo addestrativo, a Firenze e, da lì, nel 1966, trasferito presso la filiale di Messina, dove fui raggiunto dalla promozione a Vice Capo Ufficio.

A Roma, evidentemente, era però rimasta traccia della mia aspirazione a poter lavorare all’estero, tant’è che, nel settembre 1968, il servizio centrale del Personale mi comunicò, tramite la filiale di Messina, il trasferimento in Libano, presso la filiale di Beirut, con il contestuale avanzamento di carriera a Capo Ufficio, ossia al grado più elevato della categoria impiegatizia (in cuor mio, speravo, invece, di fare il salto da V.C.U direttamente a Procuratore, cioè il primo livello della categoria Funzionari).

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Scrissero, da Roma, che, ove fossi stato d’accordo, nelle more di raggiungere Beirut, avrei dovuto compiere un’altra missione addestrativa presso la sede di Napoli.

Anche se, proprio in quel periodo, mia moglie restò incinta per la seconda volta, io detti la disponibilità e l’accordo al trasferimento, chiedendo, ad ogni modo, di poter avere un colloquio, a Roma, col Direttore Centrale Capo del Personale.

Ricevuto dal predetto, gli chiesi d’esaminare la possibilità di farmi partire non con l’avanzamento a Capo Ufficio, ma con la promozione a Procuratore; però, l’Alto Dirigente, ebbe buon gioco a replicare che, intanto, dovevo effettuare il trasferimento alle condizioni indicate, poi, se fossi stato ben valutato dal direttore di Beirut, quest’ultimo avrebbe avanzato la proposta a Funzionario e la Direzione Centrale avrebbe potuto considerarla favorevolmente.

Dalla capitale, feci ritorno alla città dello Stretto e, ancorché non felice, di lì a poco, raggiunsi Napoli.

Nel frattempo, in Libano, la situazione politica, già non tranquillissima, andava diventando precaria se non pericolosa; in parallelo, procedeva la gravidanza di mia moglie, ogni tanto, fra noi, s’affacciavano perplessità e timori circa il passo da compiere, lasciando l’Italia in quattro per il Medio Oriente.

Sia come sia, a giugno 1969, che si stagliava progressivamente più prossimo, sarei dovuto partire con la famiglia per il Libano. 

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Man mano che il tempo passava, si accentuavano i dubbi, le incertezze e affioravano i potenziali pericoli connessi con la nuova residenza, perciò ritenni di chiedere un nuovo colloquio con l’ufficio centrale del Personale, dove, deciso, dissi apertamente che non era mia intenzione di rimangiarmi e far venir meno la disponibilità fornita circa il trasferimento a Beirut. Però, a quel punto, alla luce del peggioramento della situazione generale nel Paese, non me la sentivo di compiere il passo insieme con i miei cari, che sarebbero rimasti in Italia, ma da solo.

Il funzionario mio interlocutore accolse con accentuato disappunto il mio cambiamento di programma, mi contestò di mettere i bastoni fra le ruote a una determinazione aziendale già da me accettata, disse che, a Messina, non sarei comunque più potuto tornare, precisando che il mio posto  era già stato occupato da un altro elemento, mi fece presente che sarei stato trasferito a Reggio Calabria o a Palermo e, in caso di rifiuto, considerato dimissionario, secondo le previsioni del contratto nazionale di lavoro.

Nonostante il clima teso e ostile aleggiante in quella stanza, io rimasi fermo sul proposito di rientrare a Messina, anche perché, a brevissima scadenza, mia moglie avrebbe partorito ed era mio desiderio e dovere assisterla, starle al fianco.

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Il funzionario, sempre visivamente seccato, mi fece attendere in un salottino adiacente dove, a distanza di una mezzora, fui chiamato da un commesso e introdotto nell’ufficio del Capo Servizio, il quale, serio, si limitò a comunicarmi: “Se ne ritorni alla filiale di Messina, il Direttore la sta aspettando”.

Naturalmente, mi sentii sollevato, in fondo ero contento, per il momento ce l’avevo fatta.

Anche se il Libano e Beirut sarebbero sopravvissuti unicamente fra le righe di una comunicazione di trasferimento.

Ripreso servizio a Messina, quel Capo Filiale mi confermò che, a Roma, erano rimasti molto contrariati per la mia linea di condotta; a suo avviso, bisognava lasciar decantare le acque.

Gli eventi, per mia fortuna, ebbero in seguito, anzi in un breve divenire, a maturare positivamente: infatti, nello spazio di pochi mesi (dicembre 1969), giunse da Roma, per me, un’altra comunicazione di trasferimento, questa volta con ritorno nella regione d’origine, a Squinzano e, soprattutto, con la nomina a Procuratore (funzionario), il salto cui miravo.

E il Libano e Beirut, seguitavano ad aver idealmente posto, misteriosi e lontani, nel mio sentire, salvo che, una quindicina d’anni dopo, mi capitò, a Milano, d’incontrare e conoscere, ormai pensionato, il direttore di quella filiale che mi avrebbe dovuto accogliere e che, all’ultimo momento, non raggiunsi più. 

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Ieri, qui, fra Marittima e Castro, abbiamo vissuto una giornata davvero stupenda dal punto di vista meteorologico e climatico: venticello di tramontana, cielo azzurro, mare calmo con temperatura dell’acqua gradevolissima, aria soave, visibilità eccezionale, coi rilievi dell’Albania che pareva di poter toccare con mano e, ben distinte all’orizzonte, finanche le isolette greche più vicine.

Sicché, durante l’uscita per una veleggiata insieme con l’amico Vitale, quest’ultimo, colpito particolarmente dalle anzidette immagini così chiare, nonostante il suo carattere prudente e i suoi piedi di solito piantati saldamente per terra, ha finito con sbottare: “Rocco, mi fa un effetto proprio speciale  questo scenario che si para innanzi a noi e mi viene di domandarmi perché non decidiamo di tenere la prua della nostra barchetta rivolta fissa in quella direzione e, così, guadagnare l’altra sponda”.

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