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Salento, zia Valeria... e dintorni

Secondo consuetudine ormai ultradecennale, domenica, 4 novembre 2018, data coincidente con il centesimo anniversario della fine della Grande Guerra, ho partecipato alla Messa nell'ex cattedrale di Castro, Perla del Salento.

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Nella circostanza, meglio dire nella specifica ricorrenza di quel giorno, mi ha favorevolmente colpito una grande tovaglia bianca collocata a copertura dell'altare e recante, sulla superficie tesa di fronte ai fedeli, la seguente frase, a caratteri ben visibili finemente ricamati a mano: Onore ai caduti della 1^ guerra mondiale.

Non c'è che dire, anche nella Casa di Dio un segno di sensibilità verso la Storia.

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Nei paraggi della mia villetta del mare, esiste un fondo agricolo, purtroppo da tempo incolto, denominato "Aria 'u Margiotta" (dal cognome di un antico proprietario, il maestro elementare marittimese don Peppino Margiotta, ormai da molti decenni passato a miglior vita).
Il terreno è recintato da un muro di tufi di media altezza, in buono stato di conservazione.
Cosa è successo?

All'interno del fondo devono esistere, verosimilmente, alcune piante, nate spontaneamente, di campanelle color viola.

Ora, il rametto di una di esse è riuscito ad attraversare il sottile interstizio fra un tufo e l'altro, dando vita, fuori dalla recinzione e quindi alla vista dei passanti sulla strada adiacente, ad alcune verdi foglioline e a due bellissime campanelle. Prodigi della natura.

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AD800px Torre Lupo 1

Stamani, come mi capita sempre di fare quando mia moglie vola, per brevi periodi, dai figli e nipotini, ho compiuto un giro nel supermercato vicino a casa, per una serie di minuti acquisti e approvvigionamenti.

Spuntata ed esaurita la relativa nota, mi sono portato in corrispondenza di una delle casse ai fini del pagamento e, ivi, mentre mi accingevo, con l’abbozzo di una prima flessione, a trasferire buste, sacchetti e prodotti, dall’apposito contenitore poggiato a terra, sul ripiano scorrevole verso il registratore contabile, si è verificato un singolare episodio, tanto inedito e insolito, quando indicativo per il mio sentire.

La cliente posizionata in fila alla cassa dietro di me, per la precisione, una signora non giovanissima bensì nella terza età, notando, forse, il mio movimento non propriamente da atleta con muscolatura scattante ed elastica, si è gentilmente e premurosamente offerta – in parte, poi, attuando in concreto l’azione, nonostante i miei ringraziamenti e, in certo qual modo, un cedimento di pudica ritrosia – di effettuare l’operazione di trasbordo merce.

Mi ha dato da pensare, tale accadimento di cronaca spicciola e, in particolare, lungo il cammino di ritorno alla mia abitazione, mi ha conferito lo spunto per pormi un interrogativo, anch’esso di poco conto e, però, rivelatore e sintomatico, per lo meno quanto l’occorso in sé: “Ma io, che coltivo il vezzo di definirmi così, posso ancora chiamarmi e, soprattutto, sono realmente, un ragazzo di ieri? Oppure, si tratta di mera illusione?”.

Sia come sia, non intendo rinunciare a tale, se si vuole bizzarra, autodefinizione e, non fosse altro nel mio intimo, sono determinato ad andare avanti a oltranza, aggrappato a detto ancoraggio e riferimento ideale.

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Non mi riesce granché, oggi, di assegnare, alle mie note, un canovaccio di ragionata scorrevolezza, pertinenza e logicità; di ciò, chiedo venia ai potenziali lettori, prendendo, soltanto, la licenza di addurre, a mia scusante, la circostanza che, da circa un anno, mai m’era incolto prima durante i quattro lustri passati, verso in regime di separazione con la penna e la scrittura.

Concattedrale di Castro

Stato di cose che, man mano che l’arco del “distacco” è andato allungandosi, si è trasformato, in seno alla mia coscienza, in una sorta di patimento e di rimorso morale, come da astinenza.

Questo, credo di poterlo affermare senza finire fuori tema, a dimostrazione che l’esercizio di adoperarsi, aprirsi ed esporsi all’indirizzo degli altri – ossia a dire degli spettatori/interpreti che, insieme con gli elementi e fattori specifici della natura, formano il vero e autentico piccolo grande mondo che circonda ciascuno di noi – mediante frasi e pensieri comunicativi, non importa se di livello e rango umile o elevato,  è valido a sostenere, accompagnare, allargare e, perché no, anche impreziosire, il comune e genuino solco  del nostro percorso esistenziale, del nostro stesso essere, con tutte le variegate sfaccettature, nel suo insieme.

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E

I miei nonni materni, Lucia e Giacomo, erano circondati da sei figli, di cui due maschi e quattro femmine.

Di queste ultime, la più grande, Immacolata, che si sarebbe poi identificata in mia madre, era venuta al mondo tredici anni prima dell’arrivo della più piccola, Valeria.

Tra dette due sorelle, intercorrevano perciò, ovviamente, sentimenti di genuino e intenso affetto, ma anche un certo senso di distacco, tant’è che, ancora adesso, a oltre mezzo secolo dalla scomparsa della mia genitrice, non passa inosservato che zia Valeria parli di lei con rispetto e deferenza: “Immacolata era la mia sorella grande, bastava un suo sguardo per capire, fare o no una determinata cosa, comportarsi bene”.

Valeria era stata battezzata con quell’appellativo, non tanto, com’era allora prassi, per ricordare o rendere omaggio al nome di una famigliare o parente, quanto per devozione verso l’omonima Santa, martire al pari del consorte S. Vitale, protettore di Marittima, anche perchè era nata il 28 aprile, esattamente nel giorno, secondo il Martirologio Romano, della commemorazione dei suddetti Santi.

Estate 1942

Valeria, insieme con la sorella appena maggiore Raffaela e i due fratelli, fu presto avviata, già in parallelo alla frequenza delle Elementari, ai lavori agricoli, in aiuto e supporto ai genitori.

Nota di colore e autentico distintivo del legame fra le menzionate ziette e il nipote Rocco, in occasione, ossia a dire all’atto, della venuta al mondo, in casa, delle mie sorelline, prima Rita e dopo Teresa, io, com’era usanza, fui in entrambe le circostanze condotto nell’abitazione dei nonni materni, restandovi a dormire, infilato nel letto a una piazza e mezzo condiviso dalle due giovani donne.

In seguito, man mano che crescevo, perfettamente a conoscenza e aggiornato sui diversi lavori stagionali in campagna, raggiungevo spesso le zie in discorso nei giardini o fondicelli, di proprietà dei nonni o condotti a mezzadria, per dar loro una mano in talune incombenze: ad esempio, attingere l’acqua dal pozzo mediante una carrucola e una coppia di contenitori a forma di barchette, chiamati tragni, e versarla negli annaffiatoi o secchi con cui le giovani bagnavano le piante e gli ortaggi coltivati in due giardini, detti, rispettivamente, “delle signurine” (in quanto di proprietà di due sorelle marittimesi benestanti e non coniugate) e “della riciddra” (argilla), per richiamo alla natura del terreno (appunto, argillosa) che caratterizzava quell’area agricola.

C

Oppure, mi recavo al “Laricu” (largo), altro terreno, dotato di un ampio capannone, dove nonni e zii coltivavano il tabacco; lì, io collaboravo, sia nella raccolta, di buon mattino, delle preziose foglie, sia, anzi soprattutto, nell’infilzarle, una dietro l’altra, per mezzo di una piccola lancia (cuceddra, in gergo dialettale), formando in tal modo infinite serie d’insiemi sostenuti da fili di spago, posti, poi, a essiccare sotto il sole.

Lavori nei campi, amicizie paesane, pure sparuti e casti amorini, secondo i limiti e i canoni di quelle lontane stagioni, per zia Valeria, la quale era una ragazza di piacevole aspetto, anzi assai carina, di temperamento estroverso e d’innata gentilezza, volto e occhi di solito illuminati dal sorriso.

E, così, un paio di fidanzati (ziti) marittimesi, con i quali però i legami non divennero definitivi, sino a quando la sua aggraziata figura non fu “scoperta”, o adocchiata, in occasione della festa patronale di S. Vitale (erano, in tale circostanza, tradizionali e immancabili le sfilate o gli “strusci” delle ragazze in attesa di maritarsi lungo la via principale del paese, sotto le luci vivide delle luminarie (apparati, in dialetto).

B

 “Scoperta”, dicevo, da parte e per opera di un giovane forestiero, il quale, una volta scattato il colpo di fulmine, in breve volgere di tempo, decise di andare a casa di zia Valeria per “dichiararsi”.

Si chiamava, Toto (Salvatore) P., era nativo della vicina località di Ortelle, ma, da svariati anni, si trovava arruolato volontario nella Marina Militare, imbarcato sui sommergibili e, all’epoca, già nei ruoli dei sottufficiali con il grado di Secondo Capo.

Da subito, il “fidanzato” diede, invero, l’impressione di essere un giovane a modo e, insieme, il che non guastava, un buon partito. In particolare, si dimostrò profondamente innamorato, letteralmente preso da zia Valeria.

Nel corso del fidanzamento, condizione, per la verità, protrattasi non per molti anni, ebbe a verificarsi un episodio che lasciò il segno fra meraviglia e ammirazione.

In concomitanza con un Natale, credo, Toto, ritornato a casa in licenza, recò in regalo alla fidanzata un elegante cappotto confezionato (appare inimmaginabile, serbo davanti agli occhi i colori e la fantasia della stoffa), da lui sicuramente scorto e scelto in qualche vetrina di Taranto, luogo, dove prestava servizio. Un dono affatto comune, posto che, all’epoca, i regali nel campo dell’abbigliamento consistevano in una determinata metratura di tessuto, in seguito affidata, dal/dalla donatario/a, per la confezione, a un sarto o una sarta del paese.

(1. continua)

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