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Roma
Atto di guerra a Roma: Il Pd di Zingaretti si dimentica l'emergenza casa

di Andrea Catarci *

Primavalle: un quartiere militarizzato dalla sera precedente, una zona rossa a impedire l’accesso dall’esterno, nessuna apertura alle richieste di evitare l’azione violenta e di concordare un trasferimento con gli occupanti, vanamente avanzate dai politici di cultura democratica presenti sul posto.

C'erano i consiglieri regionali Marta Bonafoni (Lista Civica per Zingaretti), Alessandro Capriccioli (Più Europa) e Paolo Ciani (Demos), il parlamentare e consigliere comunale Stefano Fassina (Patria e Costituzione), il presidente del Municipio Roma VIII Amedeo Ciaccheri e l’assessore del Municipio Roma III Christian Raimo.

Non c’era nessuno spazio per la mediazione nella notte tra il 14 e il 15 luglio a Primavalle, l’ordine proveniente dal Ministero degli Interni era giunto perentorio e la prefetta Gerarda Pantalone lo aveva recepito senza tentennamenti, abdicando alla complessità che il ruolo esigerebbe: sgomberare le 78 famiglie dell’ex scuola di via Cardinal Capranica e ripristinare la più beffarda e inumana delle legalità. Così all’ora prefissata l’apparato messo in campo si è mosso ed ha vinto la resistenza degli occupanti e del “muro popolare” attraverso una ventina di blindati della polizia, cinque o sei camionette dei carabinieri, cinque o sei defender, tre camion con gli idranti, un elicottero, centinaia di agenti in divisa e in borghese. Allo sforzo bellico messo in campo da Prefettura e Questura, va aggiunto quello fatto in appoggio dai pompieri con diversi automezzi, dalla sala operativa sociale di Roma Capitale con i camper e le autoambulanze e dall’Atac con gli autobus messi a disposizione.

L’atteggiamento guerresco della Prefettura

Dopo l’azione di forza arriva puntuale la propaganda, con cui si omette di dire che il giorno dopo è sicuramente peggiore di quello precedente e che le “gloriose” gesta non sono state condotte contro un altro esercito ma ai danni di famiglie povere, con una quotidianità scandita da difficoltà economiche e lavori precari, intervallati dalla speranza di un domani migliore e dalla soddisfazione di vedere i propri figli inseriti nelle scuole del territorio.

La prefetta Pantalone, a posteriori, si è limitata a commentare gli esiti dello scontro fisico e a parlare come un generale dopo la vittoria in una battaglia, evidenziando il proprio buon lavoro e criminalizzando gli avversari: ci sono stati momenti di tensione ma sono stati superati brillantemente e comunque sono imputabili a “qualcuno che ha aizzato gli occupanti”, altrimenti sarebbe filato tutto liscio e non si sarebbero effettuati né i tre arresti né le denunce.

Non le è interessato nemmeno avvalorare l’immagine di un’istituzione al servizio della cittadinanza sociale, impegnata a promuovere e garantire una legalità non solo formale e a caratterizzarsi come strumento generale di garanzia dei diritti fondamentali del cittadino. No. Non la riguardano le istantanee di donne e uomini che raccattano i propri bagagli e cercano di allontanarsi e di far perdere le proprie tracce, dei bambini che raccolgono i libri e i loro giochi con gli sguardi tra il terrorizzato e l’incredulo, della rabbia collettiva per essere riportati indietro nel tempo a quando da soli vedevano l’integrazione come un miraggio. L’importante è aver chiuso la prima fase della guerra dichiarata e guardare avanti, annunciando gli obiettivi successivi della campagna d’estate, già programmati per il mese di agosto: in un prossimo tavolo provinciale per l’ordine e la sicurezza si intende fare il bis, mettendo nel mirino lo stabile occupato di viale del Caravaggio, senza escludere di procedere anche nei confronti del vicino edificio situato nel complesso Ipab di via Casal de Merode, prefigurando così uno scontro allargato all’intero quartiere di Tormarancia.

Le parole vuote del Campidoglio

Seppur con linguaggi e contenuti diversi, un atteggiamento simile è stato tenuto anche dalla Sindaca Virginia Raggi e dall’assessora comunale ai servizi sociali Laura Baldassarre, che orgogliosamente hanno parlato delle 145 persone accolte. In realtà sembra che siano rimasti nei centri per l’emergenza soltanto 18 nuclei, per un totale di una quarantina di persone, ma cosa importa? Da Roma Capitale, sala operativa sociale compresa, hanno sottolineato come si siano dovuti muovere ‘in emergenza’, come se non fosse risaputo che quelle famiglie stavano lì da anni, che ci si stava avviando all’epilogo scontato e inumano, che le offerte di assistenza sarebbero state in gran parte declinate per la loro indecenza. Così è puntualmente avvenuto: malgrado le rassicurazioni ingannevoli circa il fatto che stavolta erano state trovate case per tutti e che le famiglie non sarebbero state divise, in realtà si trattava delle solite ricette, cioè centri di accoglienza a bassa soglia e servizi temporanei e inadatti. Inevitabilmente una trentina di famiglie hanno cercato ospitalità in altre occupazioni e altrettante sono tornate in strada, rifiutando di finire in strutture fatiscenti, con posti letto in dormitori maleodoranti in cui sarebbe stato impossibile anche scaldare il latte per i loro piccoli, situate in luoghi lontani da dove hanno vissuto per una decina di anni e più, dai legami consolidati con pezzi di comunità territoriale che hanno preso parte ai picchetti di solidarietà, dalle scuole frequentate dalle bambine e dai bambini.

La voce flebile della Regione

Nonostante la presenza fisica in solidarietà di alcuni esponenti della maggioranza e le delibere 18/2014 e 50/2016 di contrasto dell’emergenza abitativa, contenenti uno stanziamento di duecento milioni lasciato colpevolmente inutilizzato dalla giunta Raggi e dal M5s capitolino, una parte dei movimenti per l’abitare non ha risparmiato critiche neanche alla Regione Lazio.

“Il sonno della Regione genera sgomberi”, recitava uno degli striscioni portati in giro con determinazione per le vie di Primavalle dopo che erano stati messi in funzione i getti degli idranti, ad accusare i vertici dell’Ente regionale di scarsa sostanza e di inconcludenza nelle politiche finalizzate al riuso di immobili, nonché di aver ceduto all’indicazione contenuta nella legge Lupi di mettere in vendita il patrimonio di pregio di edilizia popolare, che sarebbe invece da incrementare come prima - e vera - soluzione al problema. Molte delle persone che vivono nelle occupazioni romane, circa cinquemila, hanno presentato da tempo domanda per una casa popolare, senza ottenere nessuna risposta. Il fatto che né il Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti nè l’assessore alla casa Massimiliano Valeriani abbiano preso chiare posizioni pubbliche sull’accaduto non migliora di certo il quadro delle relazioni già turbolente.

Colmare la distanza tra il sociale e la sfera delle istituzioni locali

Insomma, c’è una voragine di vaste proporzioni che divide le vittime della peggior emergenza abitativa d’Europa dalle istituzioni che dovrebbero collaborare per trovare risposte adeguate a frenarla e superarla. L’apertura di credito verso Roma Capitale era cresciuta episodicamente, dopo lo spostamento concordato con le famiglie di via Carlo Felice; quella verso la Regione Lazio è andata a corrente alternata ed è in diminuzione da quando i dettami delle delibere richiamate sopra sono rimasti lettera morta. Tutti e due gli Enti locali sono chiamati a ridurre velocemente le distanze con i movimenti per l’abitare e l’universo delle occupazioni, se non vogliono assistere passivamente ad altre manifestazioni di ostentazione muscolare e irresponsabilità sociale come quella di Primavalle, decise dal governo nazionale. Devono fare loro i primi passi, subito, rendendosi indisponibili ad azioni di forza come facevano fino a poco tempo fa nei Tavoli per l’ordine la sicurezza pubblica e come hanno rinunciato a fare da aprile 2019, quando è stato sottoscritto da tutti il cosiddetto Patto per la sicurezza ed ha preso forma il piano sgomberi, con cui nel breve e medio termine si intendono azzerare 22 esperienze catalogate come “occupazioni critiche”.

Altrimenti il Ministero dell’Interno avrà gioco facile. A Roma ha messo nel mirino un centinaio di spazi occupati a uso abitativo, centri sociali e luoghi diventati da anni eccellenze artistiche della città, come il Maam, Museo dell’altro e dell’altrove, all’interno di un complessivo paradigma securitario. Investe sulla ferocia degli sgomberi, punta sulla pancia delle crisi economiche e occupazionali, alimenta l’ostilità dei Penultimi nei confronti degli Ultimi, tutto per guadagnare consenso sporco - come fa con la criminalizzazione a oltranza dei migranti -. Non dobbiamo permettere tale gioco al massacro, né dal versante delle mobilitazioni sociali né da quello delle istituzioni locali, Regione, Roma Capitale e Municipi: la linea della fermezza e della repressione poliziesca contro il variegato mondo dell’autogestione rischia di precipitare la città in uno scontro di cui faranno le spese complessivamente i nostri quartieri, trasformati in scenari di guerra e investiti da venti di normalizzazione che tendono a soffocarne le voci di protagonismo critico. Come ha dimostrato Primavalle può non bastare la mobilitazione dal basso a fermare il piano distruttivo, urge costituire e rendere visibile un fronte più ampio prima della replica che si preannuncia altrettanto insensata a Tormarancia.

* Andrea Catarci, Movimento civico

 

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