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Roma
“C'era una volta... a Hollywood”, il solito Tarantino. Ma con Pitt e Di Caprio

di Valentina Renzopaoli

Leonardo Di Caprio e Brad Pitt come Paul Newman e Robert Redford. L'accostamento è dello stesso Quentin Tarantino, che torna nelle sale italiane con “Cera una volta...a Hollywood”, il suo nono film, forse il penultimo secondo le ultime dichiarazioni del regista, che arriva nei cinema italiani il prossimo 18 settembre.

 

Il sex appeal di un ormai maturo Brad Pitt, “il vecchio cowboy con la camicia a fiori”, sigaretta perennemente tra le dita e sguardo da vita vissuta; e la bravura attoriale di Leo Di Caprio, capace di “smontare” la sua faccia, destrutturare i lineamenti del viso come faceva Francis Bacon con i suoi autoritratti, per trasmettere l'angoscia e la paura di un uomo che vede la sua carriera al capolinea, potrebbero valere i (lunghi) 161 minuti del film, anche per chi Tarantino non lo ama. Perché è così: Quentin Tarantino o si ama o si odia, le mezze misure non sono previste.

Il film è ambientato nel 1969 a Hollywood, l'anno in cui fu eletto presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, l'anno in qui l'uomo sbarcò sulla Luna e l'anno della strage al Cielo Drive, in cui i seguaci della setta di Charles Manson uccisero sette persone, fra cui Sharon Tate, moglie di Roman Polansky, incinta di otto mesi, sconvolgendo l'America e il mondo intero, che di lì a poco, avrebbero cambiato volto.

La storia è quella dell'attore televisivo in declino Rick Dalton, protagonista alla fine degli anni Cinquanta di un telefilm western di successo “Bounty Law”, e del suo stuntman, nonché miglior amico, Cliff Booth, che stanno cercando di emergere all'interno dell'industria cinematografica in rapida trasformazione. Poi ci sono “le” storie: quelle di Sharon Tate, appunto, interpretata dalla bella e bionda Margot Robbie che tantissimo ricorda una giovanissima Patty Pravo; per uno scherzo del destino, Rick, l'attore in crisi, si ritrova come vicino di villa Roman Polansky, regista di “Rosemary's baby” e la sua giovane moglie. Poi c'è la storia della Manson Family, che nel frattempo si è accasata nello Spahn Movie Ranch, il luogo dove era stato girato proprio “Bounty Law”. Poi c'è Hollywood, la vera protagonista del film, con le sue strade, i suoi panorami, le sue ville, i suoi angoli, le sue macchine d'epoca, come la Cadillac Coupe de Ville del 1966 color giallo crema su cui Leo e Brad si muovono; o la MG TD dei primi anni Cinquanta guidata da Polansky e consorte.

E poi, ancora, su tutti e su tutto, c'è il cinema, le sue facce, le sue voci, le sue fantasie, i divi e i finti divi.

Visionario, cervellotico, Tarantino sceglie di fare quello che ha sempre fatto: mischiare realtà e finzione, sovrapporre presente, ricordi e immaginario filmico, scardinare i piani narrativi. I protagonisti vivono recitando e recitano vivendo, sono sul set e dentro uno schermo televisivo, in campo e fuori campo, e la pellicola scorre con il racconto in prima persona e poi con una voce narrante che guida l'azione. Alla fine, ci vorrebbe una mappa geografica per orientarsi nei meandri della giungla “tarantinesca” e ricomporre le tessere del mosaico, che poi sono quelle della vita.

Oppure no, non c'è bisogno. Perché alla fine è il cinema che decide, e il suo potere catartico riesce persino a cambiare il corso della storia. Il massacro di Sharon Tate e del suo bambino viene vendicato e a morire massacrati con la testa fracassata e il corpo carbonizzato sono gli assassini.

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