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Roma
Cacciava elefanti, ora è maestra d'asilo. Il Kenya tra tradizioni e voglia d'Europa

di Lucia Stella Ravoni


MALINDI - Allo svincolo di Mambrui, la jeep lascia la strada asfaltata per imboccarne una sterrata che si inoltra all’interno verso Marafa, la depressione geologica denominata “la cucina del Diavolo”, dove gli agenti atmosferici hanno scolpito questo suggestivo canyon di arenaria fino a farne un luogo spettacolare per forma e colori, specialmente nelle ore del tramonto. Il bivio è lungo la Lamu Road, la dorsale che costeggia l’Oceano Indiano verso il Nord più estremo del Kenya, pochi chilometri dopo la famosa cittadina costiera di Malindi. Marafa non è però la nostra meta, che invece da lì ci spinge più a Sud-Ovest verso l’interno.
Al volante del fuoristada c’è Luca Macrì, una guida italiana tra le più esperte di questa area, specializzato in safari fotografici nei grandi parchi nazionali, fortemente inserito anche nel tessuto umano di questa zona e quindi capace di itinerari alternativi originali.
In un territorio di piantagioni di manghi e ananas, tra radure, piccoli villaggi e boschi di acacie, la nostra direzione è un insediamento della tribù Watta, una delle decine di etnie che popolano questo importante Paese dell’Africa dell’Est: “I Watta sono un gruppo tribale – dice Macrì - che hanno dovuto abbandonare la caccia in generale e degli elefanti in particolare, loro antica quasi esclusiva fonte di sostentamento. Le giuste nuove regole di rispetto delle specie protette, infatti, prevedono l’equilibrio tra demografia e wildlife, a volte anche a scapito di antiche usanze e tradizioni”.
“Ovviamente, oggi i Watta – spiega Macrì - si stanno integrando sempre più nel Paese, ma nel piccolo insediamento che visiteremo riprodurranno alcune antiche usanze, poiché lo utilizzano per mostrare ai visitatori come vivevano nel passato”. Infatti veniamo accolti da un gruppo di persone vestite in maniera variopinta e tradizionale, tutto dietro al capo villaggio Badiva Barisa, un anziano Mzee alto e dal portamento fiero e distinto. L’accoglienza che la piccola tribù ci riserva è con un tipico canto vigelegele e una danza di benvenuto assai allegra e coinvolgente.
Con la mediazione e la traduzione di Macrì che parla fluentemente la lingua swhali, il Capo ci spiega che da molti anni ormai non praticano più la caccia all’elefante per cui erano famosi. La loro integrazione è quindi nel nuovo tessuto del Paese, “tanto che la figlia del Capo – dice Luca Macrì - è una maestra della Mulunguni Primary Scholl. I loro archi di legno di mtwanda e loro frecce di legno di hdiri, anticamente tesi con un tendine di giraffa, oggi non cacciano più, ma servono per il loro abbigliamento tradizionale in occasioni delle feste o per rappresentazioni come questa, dove mimano il loro passato ardimentoso contro i grandi pachidermi dell’Africa”.
Inoltre, il Capo spiega che la loro etnia è patriarcale. Una volta, mentre gli uomini seguivano le loro prede, le donne curavano e spostavano il villaggio lungo i sentieri di caccia. Oltre alla carne stesa a seccare sui rami alti, la loro alimentazione prevedeva anche una polenta di farina rossa, ricavata dalle donne battendo nei mortai i semi degli stupefacenti frutti di alcune grandi felci tipiche di questa area, una specie di enormi pigne verdi che all’interno hanno un vero arcobaleno di vividi colori.
I Watta erano inoltre famosi per la loro abilità di trovare il miele della savana nei tronchi cavi degli alberi: “Individuavano i nidi delle api – spiega Macrì - seguendo il volo dell’uccello honey guide, ghiotto di miele; quindi, accendevano un piccolo fuoco di erba verde sul terreno sotto ai nidi, il cui fumo denso serviva a scacciare le api. Solo allora, potevano accedere abbastanza tranquillamente a questa naturale fonte di energia”.
“Questa tribù anticamente non praticava agricoltura o allevamento, era assolutamente nomade – aggiunge Macrì- poiché seguiva lo spostamento delle mandrie di elefanti. Una volta, infatti, la loro area di caccia si stendeva principalmente tra i fiumi Galana e Thiva: il primo è un corso d’acqua perenne che scorre nel grande Tsavo National Park delimitando il loro confine a Sud-Ovest, il secondo è un fiume stagionale che tira il loro confine verso Nord. Il loro ceppo linguistico è cuscita, così come l’antica discendenza è dal Corno d’Africa, dall’Etiopia e dalla Somalia”.
In un Paese che sta crescendo a vista d’occhio, allineandosi prepotentemente alla modernità come la si intende in Europa, le antiche usanze rappresentano una memoria preziosa. “Questa gente ha vissuto per secoli e fino a pochi anni fa solo con archi e frecce in capanne di erba intrecciata -dice Luca Macrì quando lasciamo il villaggio- spostandosi nella savana a piedi scalzi. In Kenya si viene per le meraviglie animali e vegetali e per i grandi scenari naturali, ma partecipare a questi intrattenimenti impostati sulle usanze umane aiuta a comprendere veramente quanto l’Africa racchiuda in sé la forza della wildlife”.

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