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Roma
Crollo del Pd a Roma, i renziani fedeli preparano la resa dei conti

di Fabio Carosi


Nel Pd romano si apre la resa dei conti. Matteo Orfini, ma anche il ministro Franceschini; per non parlare di Nicola Zingaretti e il gruppo al Consiglio regionale per finire con il senatore Stefano Esposito che nel "massacro politico" di Ostia e Torino vede sfumare il suo sogno di un collegio a Roma.
La disfatta di Roberto Giachetti umiliato dalle urne non è solo la vendetta del centrodestra che è andato in blocco a votare "contro il Pd" ma la fine di un'egemonia politica sulla città dove "il modello Roma" dei Bettini, Morassut, Marroni e Miccoli non è riuscito a tenere in mano una città dove ha fatto il bello e il cattivo tempo, a partire da Ignazio Marino per finire proprio con l'ex sindaco cacciato come un ladro su diktat di Renzi e difeso a malapena da chi invece lo aveva sostenuto.
Per ciascuno degli ex "signori del Pd" di Roma c'è un capo d'accusa ben chiaro che non aspetta altro che essere formalizzato per spiegare al popolo di sinistra che dietro il Campidoglio all'M5S non c'è solo il successo politico dei "ragazzi di Virginia" ma l'insuccesso di un'intera classe dirigente che si sarebbe voluta vendicare del "renzismo". Come? Semplicemente con una campagna elettorale talmente morbida che risultare inesistente o finalizzata d interessei familiari, come nel caso di Dario Franceschini e della moglie Michela Di Biase che ha fatto pieno di voti attigendo nelle aziende di trasporto con l'aiutino del solito sindacato che non perde mai il vizio di tramutarsi in soggetto politico attivo al momento giusto.
Per Orfini già presidente e commissario romano, l'elenco delle "imputazioni" supera la lunghezza dei suoi storici post sui social. Il lavoro di pulizia dei circoli invece di essere spiegato come il vero rinnovamento che avrebbe segnato la fine dei potentati è stato derubricato ad un atto amministrativo interno, culminato con l'imbarazzo di Giachetti candidato in affanno di fronte alla Raggi che nel faccia a faccia lo ha inchiodato sui debiti complessivi del partito e crocefisso quando si è trattato di spiegare come mai lo storico Circolo di via dei Giubbonari non aveva regolato ancora le sue pendenze col Comune. A Matteo Orfini viene imputato di aver passeggiato nel riordino e di non aver mal gestito le diverse componenti.
Poi c'è Nicola Zingaretti. Secondo i "renziani", dovrà spiegare il senso di un impegno elettorale ridotto alla sola presenza all'Auditorium della Conciliazione nella serata show tra Renzi e Giachetti. Per il resto il Governatore "saponetta" si è blindato nelle sue stanze e mai si è speso pubblicamente negli oltre 5 mila km percorsi da Giachetti in scooter nel tour della città.
Infine, Stefano Esposito. A metà tra il nuovo che avanza e il vecchio che resiste, tranne il suo straordinario interesse per l'Atac, è stato una specie di chimera. Il risultato di Ostia, sommato a quello di Torino, nel fa un capro espiatorio ideale. E' un altro del Pd che pensava che la campagna elettorale si potesse giocare sui social invece che accanto alla gente.
E gli altri? Ce n'è per tutti, giurano i renziano romani e non basterà il congresso per la resa dei conti. Coltelli affilati, qualcuno dovrà dare un segnale mettendo la sua firma sotto una lettera di dimissioni. Per carità, solo dall'incarico. Come insegna Zingaretti che si è fatto assumere dal partito prima di accettare l'incarico di Governatore, nel Pd chi perde esce solo con le ossa rotte ma dal punto di vista politico. Difficile per la nomenclatura perdere una stelletta e tornare o iniziare a lavorare. Sarà forse per questo che metà di Roma ha deciso di cambiare. Ma il Pd è pronto a ripartire secondo la classica liturgia: una serie di inziative per l'analisi della scontitta, un dibattito complessivo e forse il congresso a fine estate, quando Renzi potrebe già vacillare. Una specie di rigenerazione del Gattopardo.

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