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Roma
L'autonomia differenziata è contro Roma ed il meridione: Italia divisa in due

di Andrea Catarci*

L’autonomia differenziata, ovvero come separare il nord dal sud del Paese e maltrattare Roma. L'analisi dei testi di accordo: chi ci rimette è il mezzogiorno.

 

Il Presidente del Consiglio Conte a nome del governo e i Presidenti Zaia, Fontana e Bonaccini a nome di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna il 16 maggio hanno siglato, con poche modifiche, le bozze di accordo per l’autonomia differenziata delle tre regioni che erano state elaborate a febbraio 2019. Da allora se ne è saputo poco o nulla, con la pubblicazione di qualche stralcio limitato alla parte introduttiva, fino a qualche giorno fa quando il sito www.roars.it , specializzato nel dibattito sulla scuola e la ricerca universitaria, ha pubblicato le bozze.

Il Veneto ottiene tutte le 23 materie consentite dal Titolo V della Costituzione, reclamando l’attribuzione completa delle aree di legislazione concorrente previste dall’articolo 117 e ulteriori materie che lo stesso articolo riserva in maniera esclusiva allo Stato, come le ‘norme generali sull’istruzione’ e la ‘tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali’. La Lombardia porta a casa 20 materie, rinunciando soltanto a giustizia di pace, casse di risparmio rurali e enti di credito fondiari. L’Emilia Romagna si concentra su 16 competenze, preferendo guadagnare un sostanziale potenziamento degli strumenti di programmazione senza azzerare completamente il ruolo del governo centrale.

Non era certo un caso che si fosse scelto di occultare per quanto possibile i testi: in essi si confermano le peggiori attese della vigilia e, per limitare gli ostacoli alla dialettica interna, il governo gialloverde intende ignorare i pareri contrari e diffidenti di tecnici, studiosi, politici e categorie interessate, che hanno sottolineato le contraddizioni anche nelle Commissioni parlamentari per il federalismo e per le questioni regionali e hanno lanciato l’allarme per la frantumazione dei sistemi nazionali di fiscalità, scuola, ricerca, sanità, infrastrutture, ambiente, beni culturali, lavoro.

In tema di fisco, una parte di Irpef, di Iva e di altri tributi resteranno sul territorio per finanziare le competenze che passeranno dallo Stato alle Regioni. Per determinarne la quantità si fa ricorso inizialmente al parametro del cosiddetto costo storico, cioè su quanto lo Stato ha stanziato negli anni precedenti; successivamente, passati tre anni, si prevede di individuare i fabbisogni standard dei singoli ambiti locali. In una clausola si prende in considerazione anche l’ipotesi in cui non si riescano a definire tali fabbisogni, per non lasciare nulla al caso: allora le regioni avranno un ammontare di risorse superiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa per le stesse funzioni, con un vantaggio netto per le regioni del nord nella suddivisione.

In materia di scuola, le nuove assunzioni dei professori sono destinate a passare dallo Stato alla competenza regionale, che si estenderebbe anche alla possibilità di decidere eventuali aumenti contrattuali e di procedere all’ingaggio del personale su base regionale. Il modello a cui si guarda è quello del Trentino Alto-Adige, di cui si mette in evidenza i risultati positivi raggiunti dagli studenti negli Invalsi, cioè in quei test che parte consistente del mondo della scuola critica per gli aspetti meccanicistici e scevri di qualità educativa. In realtà l’intesa siglata da sindacati e governo il 24 aprile 2019 stabilisce in maniera inequivocabile che il sistema dell’istruzione va lasciata fuori dai processi di regionalizzazione. Nonostante tale impegno sottoscritto dal Primo Ministro Conte si sta andando nella direzione opposta, con il Ministro dell’Istruzione Bussetti che ha apertamente dichiarato di voler convincere le parti in causa della bontà del processo di differenziazione dei sistemi, per andare incontro alle richieste di Veneto, Lombardia e Emilia Romagna.

In materia di sanità, dove la delega alle regioni è già ampia, ad esse viene riservata anche la facoltà di definire i livelli di assistenza, la relativa spesa per la gestione del sistema e i Lea (livelli elementari di assistenza), nonché di poter stipulare accordi specifici con il mondo universitario e decidere autonomamente sullo stanziamento di risorse aggiuntive per il personale.

Riguardo alle infrastrutture il nodo principale riguarda il passaggio alle regioni delle proprietà. Esse già hanno la gestione di tratti del trasporto su ferro e della rete autostradale, attraverso la partecipazione alle società concessionarie. In tal modo viene annullato il ruolo di programmazione e controllo dello Stato, con la visione unitaria della mobilità pubblica delegata ai singoli attori regionali.

Nelle stime più attendibili il valore del trasferimento delle funzioni viene quantizzato intorno ai 20 miliardi di euro. Nel mucchio, come si accennava sopra, spiccano la gestione in proprio del gettito fiscale, il passaggio dal sistema educativo di istruzione e formazione ad una scuola regionale con insegnanti dipendenti dalle regioni e assunti secondo criteri stabiliti dalle stesse, quello dal sistema sanitario nazionale a sistemi regionali per la salute, la proprietà delle infrastrutture. Poi c’è il capitolo altrettanto sostanziale della gestione diretta dei fondi per le imprese, degli incentivi per lo sviluppo economico e l’occupazione, delle garanzie pubbliche ai finanziamenti bancari, degli aiuti all’agricoltura, miliardi di euro destinati a passare dai Ministeri agli Enti regionali.

L’autonomia differenziata è contro Roma e il mezzogiorno

Come è stato messo in evidenza da molti osservatori e attori, è a rischio la coesione politica e sociale del Paese. Sembra di vedere davvero avverata la previsione contenuta nello studio degli anni Novanta di Kenichi Ohmae, un Senior partner della multinazionale di consulenza strategica McKinsey & Company, che parlava di “unità omogenee di business” identificate in Stati-regione e destinate a collegarsi tra loro spaccando i vecchi e inefficienti Stati nazionali.

L’altro effetto collaterale sarà quello di provocare l’ulteriore impoverimento di Roma, visto che gradualmente se ne andranno migliaia di dipendenti pubblici e tutte quelle attività economiche collegate alla vicinanza con i luoghi della decisionalità politica. Insieme, viene duramente colpito il ruolo di Capitale, quello per cui la città eterna non ha mai avuto il dovuto riconoscimento in termini di risorse e funzioni, a differenza delle altre capitali europee che peraltro non hanno nell’ambito comunale la maggior concentrazione al mondo di beni culturali ed archeologici ed un’entità statuale che risponde al nome di Vaticano. Eppure è un dato indiscutibile che una comunità cittadina di quasi tre milioni di residenti formali che in realtà sono di più - che ogni giorno diventano quattro per effetti del pendolarismo e del turismo - debba ricevere cure ed aiuti centrali adeguati, per i servizi alla persona e di cittadinanza, i trasporti, il ciclo dei rifiuti, la manutenzione urbana, in modo da convivere serenamente con gli organi di governo nazionali, le sedi delle forze politiche, sindacali e di rappresentanza, le ambasciate ed i consolati, le sedi delle istituzioni internazionali, persino uno Stato estero con il capo della cristianità.

L’autonomia differenziata, insomma, si sta effettivamente realizzando per come era stata concepita, contro Roma e il meridione d’Italia.

*Andrea Catarci, Movimento civico

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