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Roma
La grande bellezza non è social: “E' un movimento dell'anima”. Siete avvisati
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di Tiziana Galli

La bellezza non è né digital né social, è un movimento dell’anima che investe l’umanità. E la crisi presente appartiene al passato, mentre l’estrema velocità non garantisce la stratificazione. Giuseppe Di Giacomo, già ordinario della cattedra di Estetica alla Facoltà di “Lettere e Filosofia” dell’Università “La Sapienza” di Roma.

“Dio è morto”, scriveva Nietzsche: storia di una crisi annunciata. Cosa è accaduto all’Estetica del nostro tempo? Perché il nostro mondo ha bisogno di cloni, a discapito dell’individualità? Cosa sta cercando l’uomo contemporaneo? In quale modo, e perché, il mondo della moda esprime tanto esplicitamente i disagi attuali? Riconoscersi per non soccombere: questo il bisogno del momento, “ma più è forte il bisogno d’identità e più è forte il rifiuto della diversità”. Ad affaritaliani.it il professor. Giuseppe Di Giacomo, già ordinario della cattedra di Estetica alla Facoltà di “Lettere e Filosofia” dell’Università “La Sapienza” di Roma.

Professore, è possibile considerare la moda una forma d’Arte?

“Senza dubbio. La variegata produzione artistica degli ultimi decenni si avvicina molto alla moda proprio per la sua precarietà: è basata sull’effimero. La moda, come l’arte contemporanea, non produce alcuna evoluzione e ogni espressione può considerarsi estemporanea e fine a se stessa”.

Entrambe sembrano rinnegare la ricerca di un’estetica di valore.

“Esatto. Oggi le produzioni artistiche dedicano sempre meno spazio alla bellezza perché l’artista non la cerca più. Adorno, un grande filosofo del secolo scorso, affermava che gli artisti del Novecento avevano abbandonato la bellezza per amore della bellezza stessa; forse un giorno potranno recuperarla, ma non oggi, perché ora per ‘il bello’ non c’è più spazio”.

Perché?

“Perché negli ultimi anni sono accadute cose orribili, come la guerra, le bombe atomiche e la Shoah: esse hanno mietuto milioni di vittime e, agli artisti, parlare di bellezza sembra offensivo. Tutto il XX° secolo è caratterizzato da questa perdita: all’inizio del Novecento, nell’arte figurativa, i canoni ritenuti validi fino a quel momento, decadono completamente. Pensi a “Les demoiselles d’Avignon” di Picasso, siamo nel 1907, ed è il quadro che apre a tutta la modernità costituendone la chiave. Lì la bellezza è esclusa: le donne rappresentate ne “Les demoiselles” tutto sono meno che belle. Un importantissimo scrittore francese, di metà Ottocento, Stendhal, in una riflessione contenuta nel volume intitolato “Passeggiate romane” dice che “la bellezza è promessa di felicità”, “ma è una promessa”, aggiunge Adorno, “non mantenuta”. E’ promessa e ricerca di felicità, ma nella consapevolezza che oggi questa dimensione non esiste; viene cercata disperatamente e invano dai giovani attraverso sostanze stupefacenti, ma rimane, pertanto, una dimensione utopica”.

Ma lei ritiene che nel secolo precedente l’uomo fosse più realizzato e quindi più felice?

“No, nell’Ottocento però si credeva in una dimensione sociale che si pensava potesse ancora essere composta, che potesse essere armoniosa. L’esplosione del contrasto di classe e quindi di tutti i contrasti in generale ha generato una dimensione instabile causata dalla perdita di sicurezze. Ma cosa sono le sicurezze? Sono i Valori, con la “V” maiuscola, quelli intesi come assoluti: il Bello, il Vero, il Bene. Anche la Bellezza era uno di questi. L’uomo ha bisogno di ancorarsi a dei valori, ma la modernità è caratterizzata dalla loro perdita: quei principi che, in qualche modo, hanno presieduto all’evolversi della storia la modernità li ha dispersi. A dissiparli, direi, che è il filosofo che inaugura la modernità: Nietzsche. E’ lui il distruttore dei valori. In “Così parlò Zarathustra” quello che viene raccontato è proprio questo processo: quando Zarathustra scende dalla montagna, dopo dieci anni di meditazione, scende proprio per portare agli uomini il suo messaggio. E qual è il messaggio? “Dio è morto”!

Cos’è “Dio”? Cosa vuol dire? Non si tratta di un messaggio religioso, “Dio” vuol dire: i Valori. E dalla transvalutazione dei valori nasce la nozione di “Übermensch”, tradotta erroneamente come “superuomo”, quando la traduzione corretta è “oltre-uomo”. Chi è questo “super-uomo/oltre-uomo”? E’ colui che non è più uomo come è stato l’uomo finora, bisognoso di valori, bisognoso di qualcuno che lo guidasse. L’”oltre-uomo” di Nietzsche è l’uomo che prende consapevolezza della sua solitudine: dell’assenza di valori che possano guidarlo o dirgli dov’è il bene o dov’è il male”.

E’ una caduta?

“Certo! E’ l’uomo che è caduto dal Paradiso terrestre. Ne “Les demoiselles d’Avignon”, il quadro di cui parlavo poc’anzi, e che a mio avviso apre a tutto il mondo moderno, la bellezza non c’è più, è sparita. Tra le cinque donne presenti, due aprono una tenda, e dietro questo sipario non c’è niente. Nulla. Vale a dire che, mentre nella pittura fino alla fine dell’Ottocento, la grande arte è sempre stata epifanica, ovvero disvelativa, nel Novecento l’arte moderna è priva di questa dimensione”.

Che intende per “arte epifanica”?

“L’Epifania, la nostra festa della Befana, consiste nel fatto che i re Magi raggiungono Betlemme dove è nato il Bambino e s’inchinano davanti a lui. Davanti a chi si inchinano? Al Bambino in cui si rivela Dio, l’assoluto. Questo rivelarsi dell’assoluto nel particolare è l’epifania. E la grande arte che conosciamo fino al tardo Ottocento è sempre stata un’arte epifanica, ovvero disvelatrice dell’assoluto. L’arte moderna non è disvelativa di nulla, per questo ne “Les demoiselles” di Picasso le tende si aprono sul nulla. Con questo non bisogna pensare che nel Novecento non ci siano artisti che credano nei valori, ma questa, senza dubbio, è la tendenza dominante. Si pensi che Matisse, il grande contemporaneo di Picasso, l’anno prima de “Les demoiselles d’Avignon”, fa un quadro intitolato “La gioia di vivere” proprio riprendendo la battuta di Stendhal secondo cui “la bellezza è promessa di felicità”. E in questo quadro, sullo sfondo di un paesaggio che si apre in primo piano, c’è l’Eden, il Paradiso terrestre. Dunque il quadro ci invita a entrare in un mondo “altro”. Il Paradiso terrestre non è solo alle nostre spalle: in qualche modo, anche se a livello microscopico, il Paradiso si dà “qui e ora”.

Quindi quello che sta accadendo adesso era prevedibile?

“Di tutto quello che accade nella storia della cultura se ne possono leggere i prodromi, non c’è dubbio”.

Dall’avvento di internet in poi, sembra che il tempo scorra più velocemente, è possibile che ancora oggi non ci sia stato un punto evolutivo?

“Sono cambiati i termini del linguaggio. Siamo passati dall’esaltazione dell’immanenza, con Duchamp che sublima la materia, alla celebrazione della ripetitività, con Warhol. Così l’opera ha perso la sua aura, l’unicità non è più presa in considerazione. L’arte nasce già seriale: pensi alla fotografia, o al cinema. Ciò che caratterizza il mondo contemporaneo è il fatto di produrre opere già riprodotte e, come dice Warhol: “trenta è meglio di uno””.

Quindi l’unicità non desta più interesse?

“Esatto, eppure in questa logica, s’inseriscono anche quei paradossi culturali costituiti dalle performance teatrali della seconda metà del Novecento, che si caratterizzano per un’unicità assoluta. Mi riferisco agli spettacoli di “body-art”, dove donne e uomini si feriscono, affinché il pubblico assista a esibizioni strazianti: lì la carne martoriata degli attori viene esposta come allegoria della società seviziata. L’artista offre il suo corpo in sacrificio, mentre la platea assiste inerme e indifferente alle lesioni. Una delle artiste più acclamate di questa corrente è Gina Pane, ma ce ne sono tante”.

Ma queste ferite auto-procurate hanno uno scopo catartico?

“No, hanno uno scopo dimostrativo: gli artisti vogliono risvegliare le coscienze. Consideri che oggi mentre si mangia si guarda il telegiornale e si è spettatori indifferenti delle sofferenze più atroci: questi attori si pongono contro tutta questa indifferenza”.

In quest’ottica, sembrerebbe giustificabile il bisogno di deturparsi che caratterizza alcune sottoculture che al giorno d’oggi fanno tendenza.

“Esatto, ha ragione. Pensi all’uso del piercing per esempio”.

Ma il concetto di bellezza cambia a seconda delle latitudini, lei pensa che la globalizzazione abbia influenzato l’estetica dell’Occidente?

“Pensiamo alle decorazioni aborigene che hanno ispirato alcune mode occidentali contemporanee: la differenza sta nel fatto che quelle decorazioni, per quelle popolazioni e per quell’arte tribale, erano cariche di significato, quei segni che qui per noi sono completamente gratuiti, nelle tribù aborigene consentivano il riconoscimento. L’insieme dei segni dell’Occidente di oggi ha la caratteristica di non essere sistematico e, non appartenendo a nessun sistema, non ha alcun significato riconoscibile; pertanto quei segni non hanno valore all’interno della società”.

Quale mito o quale valore rincorre la nostra epoca?

“Il valore che viene rincorso oggi è “il valore del non-valore”, il “non-paradigma”: non ci devono essere valori. Come preannunciato da Nietzsche, oggi non esistono ideali, non esistono legami realmente condivisi, e paradossalmente questo fa nascere, soprattutto nei giovani, il bisogno di appartenere a un gruppo sempre più vasto. E il disperato bisogno di avere un’identità all’interno di un gruppo, dove ci si riconosca attraverso simboli condivisi e senza un reale valore, è quello che Pasolini recriminava definendolo “il principio di omologazione”. Non si vuole essere diversi e non si accetta il diverso. Tutti inseguono gli stessi “pseudo valori” che poi a distanza di pochi mesi immancabilmente cambiano. E così, per un determinato periodo di tempo, tutti cercano la stessa marca di jeans, di scarpe o di borse, con la conseguenza di produrre un totale livellamento del gusto".

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