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Roma
Roma, Alta moda addio, il sogno si è spento insieme alla Capitale

di Tiziana Galli

Alta moda addio, è finito il tempo delle vacche grasse, si sgretola il sogno insieme alla capitale: in un triste medioevo culturale si sciolgono le speranze di un possibile ritorno. Istituzioni e media non ne vogliono più sapere.

 

Storia, tradizioni e know-how traditi da un accanito attaccamento alla crisi. Correva l'anno 1993 e sotto il cielo di Roma, in piena "era Berlusconi", andava in onda, in una sorta di kolossal faraonico, la prima attesissima sfilata di "Donna sotto le stelle" trasmessa da canale 5, dopo sette anni di conduzione Rai ed una serie di insulti, veleni e polemiche su quale fosse la gestione ideale.
Con la conduzione Fininvest ascese agli onori degli altari il prêt à porter, inserito in passerella insieme alla canonica alta moda, che di contro perdeva alcune delle sue firme più prestigiose. Quell'anno Versace si rifiutava di sfilare se non con trenta mannequin in esclusiva per lui e Valentino, già migrato a Parigi, si affacciava esclusivamente per ritirare il premio come "ambasciatore dell'eleganza italiana nel mondo".
Era il tempo di personalità geniali e capricciose, ma autenticamente capaci di far corrispondere il sogno al business. Prêt à porter ed alta moda si alternavano, in mondovisione, sulla mozzafiato scalinata settecentesca di Trinità dei Monti. E tutto il mondo stava a guardare. Citandoli in ordine sparso, senza differenziare alta moda e prêt à porter, ricordiamo nomi come: Fendi, Lancetti, Basile, Missoni, Gattinoni, Alma, Trussardi, Sarli, Soprani, Coveri, Riva, Ferragamo, Balestra, Curiel, Ferretti, Biagiotti, Max Mara, Blue Marine, Odicini, etc, per un programma televisivo venduto a Cina, Russia, Ucraina, Spagna, Portogallo, Turchia, Stati Uniti, Canada e quattro Paesi del Sud America.

Di tutti i giganti della moda, a Roma è rimasto solo un ultimo ed estremo eroe a ricordare i fasti che furono, mantenendo viva la voce di una tradizione secolare dalle regole ben precise: Renato Balestra. Oggi a Roma, perlopiù all'interno di grandi loft dalla suggestione newyorkese, sfilano anonimi stilisti rampanti, non necessariamente ben formati, che passano per Roma sognando Parigi, e promettenti designer nazionali ed internazionali che, selezionati nel tempo da Vogue Italia in collaborazione con Altaroma (l'attuale s.c.p.a. che cura il lancio di designer emergenti e promuove l'alta moda italiana) si accingono a farsi conoscere. Ma del "sogno" non c'è più traccia.

All'epoca dei grandi fasti la camera Nazionale della Moda aveva istituito un'apposita commissione per la scelta dei partecipanti, e l'evento era il biglietto da visita di una città che non lasciava spazio alle chiacchiere ed entrava nel cuore e nei sogni di milioni di telespettatori. Una città che aveva ancora il senso della dignità e manteneva un profilo di grandiosità ed opulenza nonostante una situazione amministrativa difficoltosa ed una gestione comunale strattonata, nel solo 1993, tra un commissario straordinario e identità politiche varie che sfumavano da Carraro a Rutelli.

Ma quali erano i costi? Per l'intera kermesse del 1993 venne speso circa un miliardo e mezzo delle vecchie lire, e lo sponsor coprì i due terzi della spesa; circa 600 milioni furono destinati alle oltre cento modelle ingaggiate. Erano personalità del calibro di Naomi Campbell, Linda Evangelista, Carla Bruni, Jasmine Ghauri, Christy Turlington e Nicky Taylor ad interpretare gli abiti e la loro presenza garantiva un'ulteriore e stratificata divulgazione dei brand sui media di tutto il mondo.

Oggi le passerelle di Roma vengono calcate soprattutto da anonime manniquin dell'est senza alcuna formazione, che camminano sui tacchi come se librassero sulle uova, ma la promozione del prodotto viene comunque garantita dalle blogger ed Instagram è la vera pedana su cui vengono puntati i riflettori. La moda, si sa, è lo specchio dei tempi, ma quale impedimento ha segato le gambe alla moda romana?

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