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Roma
“Scrivere mi aiuta a sopravvivere alla “morte” del posto fisso”. La storia

di Patrizio J. Macci


Scrivere per “sopravvivere” alla banale quotidianità e alla “morte” del posto fisso in ufficio. “Il posto fisso e la routine sono il prezzo da pagare per la libertà di vivere. Ma io non lo accetto”.
 

 

 

Patrizia Cardone, leccese di origine, specializzata in Psicologia clinica, si è occupata di ragazzi con difficoltà cognitive e comportamentali. Ha pubblicato nel 2012 il volume "Lettere d'amore tra passato e presente" (Besa Editrice). Premiata con il riconoscimento al merito "Premio Vitruvio" con la lirica inedita "Luna avvolgente" (giugno 2013), e nel giugno del 2014 con l'inedito "Crepuscolo". Attualmente vive a Roma riuscendo a conciliare il lavoro d’ufficio con la scrittura. “Storie di noi” Kepler Edizioni appena uscito in formato digitale sulla piattaforma bookrepublic è un libro che ha avuto una vicenda editoriale insolita. Inizialmente concepito come un romanzo che si sviluppava in centinaia di pagine, ricco di descrizioni è stato asciugato dall’autrice fino a farlo diventare un racconto lungo.

Dottoressa Cardone, come riesce a gestire il suo lavoro di funzionaria di banca e la scrittura; e poi, “Storie di noi” doveva essere una sceneggiatura poi è diventato un “racconto lungo”non,  è curiosa come vicenda?

“E’ stato un atto di liberazione da quello che mi era accaduto. La scrittura mi aiuta a sopravvivere, diversamente sarei stata tritata dal meccanismo lavorativo senz’anima. Ma questa è letteratura, Giuseppe Pontiggia ha scritto un romanzo memorabile su questo tema “La morte in banca”. Il titolo dice tutto. E’ passato mezzo secolo dall’uscita di quel romanzo, ora c’è internet ma nulla è cambiato. Il posto fisso e la routine sono il prezzo da pagare per la libertà di vivere. Questa è una realtà che continuo a non accettare.
Il “noi” del titolo comprende tutte le persone, nessuno pensa ad alcuni eventi dolorosi fino a quando non gli accadono. L’appuntamento con il destino è dietro l’angolo anche se spesso ci rifiutiamo anche solo di pensarlo. Nulla può preparare un essere umano al suono della tua vita che va in frantumi, al dolore di una storia interrotta, strappata come fosse carta, quando avevi sempre creduto di averla scavata nella pietra. Cana Fiorello aveva letto la versione “estesa” della storia, mi ha dato alcuni consigli, mi ha spronato a proseguire perché la vicenda le era piaciuta”.

In quale momento della giornata riesce a ritagliare uno spazio per la scrittura?

“Per scrivere ho bisogno del silenzio, durante il giorno accumulo sensazioni e stimoli che poi trasporto sulla carta preferibilmente la notte. La scrittura per me è una terapia, scrivo e poi tolgo quello che non serve e non è funzionale al racconto”.

Nel libro c’è la descrizione della disumanità di alcuni medici, è realmente accaduta anche quella?

“Sì, mi rendo conto che è un pugno nello stomaco (quasi tutti quelli che leggono il libro mi fanno notare quel passaggio), ma in quel caso il medico è stato di una ferocia unica. Senza pietà nel senso etimologico della parola. All’inizio la descrizione era anche più dettagliata ma l’ho volutamente scarnificata, ridotta all’osso. Davanti a quelle parole scatta l’impotenza. La scrittura è l’unica forma di reazione possibile”.

Il suo prossimo libro?

“Un romanzo fiume, un’opera della quale ho scritto solo la trama ambientata in ufficio dove le persone si muovono come pesci in un acquario. I pesci rossi dopo tre secondi dimenticano quanto fatto in precedenza, ma non siamo pesci rossi anche se ci mettono dentro una palla di vetro restiamo esseri umani”.

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