Adesso che ad occupare la scena è Carlo Cottarelli, con i suoi ministri sacrificali (pronti cioè ad esporsi per amor di patria nel ruolo di ministri-funzionari senza maggioranza in Parlamento) vale forse la pena di spendere qualche parola di apprezzamento per il professor Giuseppe Conte. Non è diventato l’avvocato degli italiani, non ha guidato il governo del cambiamento. Ma ha rinunciato rapidamente al ruolo nel quale era stato attirato da Di Maio e Salvini: esecutore di un mandato, più che guida di un governo.
Avrebbe potuto resistere, o giocare in proprio qualche carta (nomi di ministri). Invece ha lasciato rapidamente la scena defilandosi, e chiarendo che l’interlocutore del Colle non era lui, ma semmai i suoi “danti causa”: Di Maio e Salvini, appunto.
E qui si chiarisce tutto: la Costituzione, e la prassi costituzionale di 70 anni, dicono che i ministri si definiscono con una intesa, o una dialettica se volete, tra il Capo dello Stato che ha attribuito l’incarico e il Presidente del consiglio incaricato. Schiacciato dai diktat di partito, Conte ha deciso di farsi da parte. Atto di realismo e di correttezza.
Qualcuno dirà: ma ai tempi della Prima Repubblica e del “manuale Cencelli” i partiti avevano eccome voce in capitolo. Però l’avevano con il Premier designato, che era uno di loro, non con il Presidente della Repubblica. Al dunque, la mediazione sui nomi avveniva tra due personaggi istituzionali.
Giuseppe Conte sapeva bene di essere una figura “di ripiego”, un professionista chiamato a conciliare le pretese antagoniste di Di Maio e Salvini. Non un giocatore, ma quasi un arbitro, un “conciliatore” tra interessi divergenti dei titolari del famoso “contratto di governo”. Non si è montato la testa, e ha salutato con dignità e discrezione. Chapeau.