I profughi sono l’eccezione; i migranti economici la regola. Esiste chi fugge da guerre e massacri – i Siriani per esempio – ma la grandissima parte di chi lascia il proprio paese lo fa per gettarsi alle spalle la miseria. Per gli abitanti dell’Africa Subsahariana presentarsi come perseguitati può funzionare; come semplici affamati no. Per questo abbondano i “richiedenti asilo”, che cercano di arrivare in Europa – Italia, Grecia, qualche volta Spagna – attraversando il mare in condizioni di pericolo, quelle che rendono necessario il soccorso dovuto a chi rischia il naufragio o l’annegamento.
L’incontro tra domanda e offerta di lavoro a volte è stato facilitato da una coincidenza di interessi tra chi emigra e chi accoglie. E’ stato così per gli europei nelle Americhe tra fine Ottocento e primo Novecento. Dopo la Guerra Mondiale le mete erano altre: Canada o Australia per chi partiva dall’Europa. Germania, Francia, Belgio, Olanda e Svizzera per gli europei del Sud; Italiani e non solo.
Se l’offerta di lavoro migrante eccede la domanda nascono barriere, difficoltà di visto, quote nazionali; persino lotterie come negli USA.
Nell’Europa che ha sofferto la crisi e la globalizzazione è comune dire che non c’è più posto per lavoratori immigrati. Ma non è così: badanti, colf, infermieri, baristi e camerieri, agricoltori e pastori servono eccome. Interi settori di produzione e servizi sparirebbero.
L’Unione Europea sa di non avere una politica sull’immigrazione, e la sta – forse – cercando. Bisognerebbe lasciare da parte le categorie di profugo e migrante economico, e creare percorsi trasparenti, non ipocriti, per il lavoro regolare degli immigrati. Persone con nome e cognome e documenti in regola, che invece di arrivare sui barconi usino aerei e treni; per cercare impieghi, non elemosine.