Tim, Cdp e Vivendi: nessun accordo sulla valutazione della rete

I francesi vogliono 31 miliardi, Cdp tace ma gli analisti parlano di una forbice tra i 16 e i 18 miliardi

di Marco Scotti
Arnaud De Puyfontaine e Dario Scannapieco
Economia
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Vivendi e Cdp litigano per la valutazione della rete

Si dice che l’occhio del padrone ingrassa l’asino. Il che è ancor più vero se al posto dei chili di una bestia da soma ci sono soldi – tanti – che devono essere corrisposti per comprare un asset strategico come la fibra. I protagonisti sono sempre gli stessi: da una parte c’è Tim, che ha annunciato a luglio il suo piano per scorporare la rete dai suoi asset, passaggio fondamentale dal punto di vista regolamentare per arrivare alla rete unica; poi c’è Cassa Depositi e Prestiti, che dovrebbe essere il direttore d’orchestra del processo di fusione tra la rete Tim e Open Fiber per arrivare finalmente a un unico soggetto non verticalmente integrato (altrimenti l’Europa boccia l’operazione) che possa portare avanti il processo di digitalizzazione del Paese. Infine c’è Vivendi, il gigante francese che detiene il 23,9% di Tim e che ha un’idea tutta sua della rete: avendo fiutato che i soldi del Pnrr graviteranno molto attorno al digitale (ballano circa 50 miliardi) ha deciso di valutare l’infrastruttura un’enormità, cioè almeno 31 miliardi. 

Una cifra fuori mercato per diversi motivi. Prima di tutto perché si tratta di un’infrastruttura obsoleta, che andrà progressivamente soppiantata dalla fibra mentre oggi il rame la fa ancora da padrone appena si esce dalle città. Poi perché mentre scriviamo Tim viene valutata in borsa 4,3 miliardi e non si capisce perché qualcuno dovrebbe pagare otto volte tanto per aggiudicarsi una sua costola. Infine perché si tratta di una valutazione che non viene confermata da nessun analista, con una forchetta tra i 16 e i 18 miliardi di euro. Da notare, tra l’altro, che il centro-destra, con Fratelli d’Italia in testa, spinge perché la rete unica si faccia in tempi rapidi, oltretutto cercando di riportare il pubblico – con Cassa Depositi e Prestiti – al centro della scena. Perché? Perché da Giorgia Meloni ad Alessio Butti si sono convinti che non si possano lasciare asset strategici in mano agli stranieri, anche se si chiamano Vivendi e controllano un pezzo importante della nostra economia. A sua volta Cdp non può dire granché: è azionista di Tim (9,9%) e di Open Fiber (60%). Non può certo entrare a gamba tesa: Tim è quotata in borsa, la trattativa industriale è tra società private. Sarebbe un gesto che rasenterebbe l’aggiotaggio e che non sarebbe compatibile con il ruolo di garanzia di Via Goito. 

E dunque non resta molto da fare: Tim ha reso noto che per la valutazione degli asset di rete fissa il Consiglio di Amministrazione è assistito da Goldman Sachs e il top-management da Mediobanca e Vitale Associati. Vivendi, che si fa assistere in Italia anche da Andrea Pezzi, guarda sorniona, sapendo che più il tempo passa, più aumenterà la fretta di chiudere la partita. Lo stesso Gorno Tempini, a gennaio, dichiarò che la trattativa per la rete unica doveva chiudersi entro 18 mesi o sarebbe stato perfettamente inutile andare avanti. Nove mesi sono andati e non si è mosso granché. Certo, basterebbe che le cifre si avvicinassero per scatenare un effetto domino che potrebbe portare a un accordo. Ma intanto siamo ancora fermi alle schermaglie.