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L'avvocato del cuore
Falcone e Borsellino, due eroi celebrati da morti e abbandonati da vivi

1992 e 2020. Due anni, apparentemente così lontani, che hanno tanto in comune. In entrambi, ci sono state tragedie causate da un “nemico invisibile”. In entrambi, ci sono stati degli italiani “eroi”, i quali, pur in modo diverso, hanno fatto prevalere l’impegno civile e l’etica del dovere sulla paura di morire. In entrambi, ancora, c’è stato (e c’è) uno spirito collettivo di rabbia, frustrazione, ma allo stesso tempo di voglia di “rialzarsi”. Il virus della mafia, a dire il vero, è circolato con forza per decenni e, talvolta in forma più “sottile”, circola ancora.

Tutti sanno (o dovrebbero sapere) che il 23 maggio 1992, alcuni sicari incaricati dai massimi capi di Cosa Nostra, fecero esplodere 1000 kg di tritolo lungo il tratto autostradale A29, in prossimità di Capaci, uccidendo il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie (Francesca Morvillo, anche lei magistrato) e i giovanissimi della sua scorta. A quello sconvolgente pomeriggio, seguì, 57 giorni dopo, l’attentato di via D’Amelio (il 19 luglio 1992), nel quale furono uccise altre 6 persone, tra le quali Paolo Borsellino.

A loro e agli altri giudici del “pool antimafia”, si deve il più grande processo alla criminalità organizzata mai tenuto in Italia: 475 imputati in primo grado, 200 avvocati difensori, 19 ergastoli e pene per un totale di 2665 anni di reclusione. Cosa nostra fu finalmente resa vulnerabile proprio con la Giustizia, un’ipotesi impensabile prima di allora. Eppure, la storia di Falcone è il paradigma di uno Stato che prima “scaglia la pietra” e poi erige un’ipocrita statua alla vittima.

Infatti, prima di morire, il Magistrato siciliano fu protagonista della lunga “stagione dei veleni”. Fu oggetto di una vergognosa serie di “voltafaccia” e critiche, specie istituzionali: fatto più significativo, Falcone fu “scartato” tra i candidati da votare per la nuova carica all’interno del CSM. Questo evento lasciò diffondere l’idea che le istituzioni non erano poi così pronte a gratificare il suo operato. Ancora, Falcone venne accusato falsamente di aver concesso che un “pentito” tornasse in Sicilia per commettere nuovi omicidi; venne addirittura accusato di essersi auto-organizzato un attentato, volutamente fatto fallire per poi trarne benefici politici. Per non parlare dell’accusa dell’allora Sindaco di Palermo “di aver tenuto carte importanti in un cassetto”. Innumerevoli altre calunnie e persino accuse di protagonismo mediatico.

Il vergognoso paradosso, tutto italiano, è che dalla sua morte, immediatamente, Giovanni Falcone tornò a essere l’eroe, per chi lo aveva abbandonato in vita e avrebbe dovuto e potuto proteggerlo. Negli anni a seguire, l’anniversario della più grande strage di mafia in Europa è diventato anche la giornata nazionale della legalità. E’ importante, senza dubbio, commemorare tutti coloro che sono morti per l’idea di contrastare la mafia e aver agito di conseguenza.

Per celebrare senza ipocrisia Giovanni Falcone, però, bisogna rispettare la memoria e la verità della sua storia. La memoria, come ha dichiarato nei giorni scorsi il magistrato Di Matteo, è ricordare che Falcone, prima di essere ammazzato dai mafiosi, fu delegittimato, calunniato, mortificato e lasciato solo dalla magistratura. Ma anche dal Consiglio superiore e dalle istituzioni in generale, sia per patologica invidia, sia per poter proseguire i giochi di potere.

La verità, invece, è quella che è stata incessantemente perseguita dal pool antimafia di Falcone, Borsellino, Chinnici e altri, e che è effettivamente emersa nello sviluppo dei processi che hanno poi portato a centinaia di condanne per mafia. Parafrasando la famosa citazione di Falcone, è fondamentale far camminare le idee degli uomini sulle gambe. Tramutare il dire in fare.

Ma oggi, riusciamo davvero a farlo? Riusciamo a farci guidare da questo principio nel nostro operato quotidiano?

L’attuale Governo, per esempio, oltre a improvvisarsi aspirante (e vuoto) romanziere legislativo, ai livelli della “recherche du temps perdu”, sta riuscendo ad aiutare in concreto i milioni di italiani piegati dalla crisi economico-sociale? Pare di no. Anzi, direi, categoricamente, proprio no.

Eppure, alcune scelte governative sembrano più facili di altre. Come quella di “autorizzare” la scarcerazione di centinaia di mafiosi. La giustificazione, al di là di quelle che possono essere state le pressioni causate dalle rivolte, pare sia stata, da una parte, il nesso causale tra carcere e contagio; dall’altra, la relazione approvata dalla commissione antimafia sull’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, in precedenza dichiarato incostituzionale. Per farla breve, per via del coronavirus, è stato giusto concedere il beneficio del permesso premio, anche ai condannati per mafia, purché abbiano mostrato un grado di “rieducazione”?

E’ stato giusto preoccuparsi subito di aggiornare la legge sull’ordinamento penitenziario, agevolando, in piena pandemia, i detenuti mafiosi, che così si sono sentiti nuovamente forti di aver avuto la meglio sulla giustizia? Se Giovanni Falcone potesse vederci oggi, non avrebbe certo “bonafede” nei suoi concittadini del futuro, specie quelli più “autorevoli”.

*Studio legale Bernardini de Pace

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