Cara Milano, Versace da bere. Il creativo? E' a servizio del profitto
La Milano da bere archiviata con l’uscita di scena di una delle sue firme prestigiose: Versace. Moda, politica e costume nel Made in Italy sempre meno italiano.
Non sono passati secoli eppure ci sembra così lontana l’era dei lustrini, del guadagno facile, della Milano energetica e scintillante, in una Festa Mobile continua, culla della più impressionante concentrazione di creativi che l’Europa occidentale ricordi. Gianni Versace era l’alfiere di quel luccichio, artefice di un cambiamento radicale nei modi e nella moda, creatore dell’illusione di un lusso diffuso e inarrestabile, una città che diventava un gigantesco Quadrilatero, allora ancora da inventare.
La moda ha forgiato la nostra città, ma quella capacità espressiva nasce dall’energia milanese, dall’interazione tra industria, intelletto, improvvisazione geniale e azzardo. Troppo banale ricordare l’inarrivabile pubblicità dell’Amaro che trasformava una città, e per la prima volta in un prodotto, una via monte napoleone lunga come tutto il paese, che in questa città voleva diventare protagonista ad ogni costo.
Ora tutto tace tra le luci fredde di una moda finanziaria e speculativa così distante da quel delirio immaginifico, anche Gianni è scomparso tragicamente da troppo tempo e gli altri sono diventati capitani di industrie multinazionali, attente ai mercati e alla quotazione in Borsa. Quel mondo non c’è più, si beve sempre ma con un allegria preoccupata e i danée, come nel caso di quest’ultimo colpo arrivano dagli USA, Donatella Versace ha fatto un grande affare ma ha sepolto per la seconda volta la spensieratezza e la bellezza dei colori creati da suo fratello.
E’ il mercato che domina, è l’economia che comanda e i creativi d’antan, diventati vecchi e meno spericolati si adeguano, forse perché troppo imbolsiti dai guadagni, o non più in grado di far sognare, non soltanto una città, ma l’intero mondo che ora si riprende il dominio del loro talento. Non è solo un passaggio di proprietà, da Versace a Kors, è l’ultima di una sequenza di impoverimento creativo a scapito di un potenziamento imprenditoriale, perché i marchi italiani continuano a mietere successi nel pianeta, ma l’imprinting è clamorosamente cambiato.
Dobbiamo farcene una ragione, siamo tornati ad essere periferia dell’impero finanziario, mentre nel decennio da bere, bastava avere idee innovative per piegare il denaro alle necessità del pensiero creatore. Nessuna nostalgia, ma una speranza che Versace viva a prescindere dai colossi che lo controlleranno e che anche da Wall Street non riusciranno ad inficiare la forza del suo sorriso spensierato in una città lontana nel tempo ma mai dimenticata.
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