Con la partenza della Fase due dell’emergenza sanitaria Covid-19, uno dei prossimi argomenti caldi che ci accompagnerà, in quanto collegato alla privacy, alle libertà personali, finanche al rischio di hackeraggio, sarà quello della sicurezza della rete informatica relativa ai dati sanitari.
In Italia, infatti, si sono registrate già in pieno lockdown alcuni attacchi informatici all’ospedale San Camillo di Roma e all’ospedale Spallanzani strutture di eccellenza e punti di forza della lotta contro il virus.
Ma è una tendenza in atto degli ultimi anni, in linea, secondo il data Breach Invetigations report di Verizon del 2019, con l’aumento dei pazienti che utilizzano dispositivi medici connessi e con monitoraggio da remoto e con i nuovi sistemi di archiviazione che sfrutta la tecnologia del Cloud computing.
In Italia esiste il Fascicolo Elettronico Sanitario, una sorta di carta d’identità clinica digitale che raccoglie le informazioni mediche dei cittadini attivato solo da un quinto della popolazione, i più smart friendly probabilmente, su propria esplicita richiesta.
Ora, secondo quanto aveva anticipato il quotidiano Il Messaggero prima della pubblicazione del Decreto Rilancio, argomento poi ripreso dal quotidiano La Verità, sembra che il governo avrebbe intenzione di farlo diventare uno strumento per tutti gli italiani creato in automatico, e quindi senza un esplicito consenso (ma forse senza neanche esserne a conoscenza), per poi essere messo a disposizione dell’autorità sanitaria e dei medici.
C’è da registrare, a tal proposito, che dal punto di vista giuridico potrebbe essere tutto legale. Con l’entrata in vigore del Regolamento UE 679/2016, Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati, è venuta meno, infatti, la centralità del consenso sul trattamento dei dati sanitari in casi di straordinarietà, proprio come potrebbe essere quello della pandemia.
Ma cosa potrebbe succedere se questi dati sensibili andassero a finire nelle mani sbagliate? Soprattutto se al nostro quadro clinico e farmacologico si dovesse allineare, anche condizioni di tipo reddituali. Il consenso del cittadino non può essere sottomesso neanche nell’emergenza. Senza considerare che ci sono tante persone, non solo quelle più anziane, che non sono smart, nel senso che non hanno l’attitudine e la capacità di gestire le tecnologie digitali. Non si può usare la tecnologia per controllare e omologare le persone ignare della propria condizione, la tecnologia dovrebbe essere usata per aiutare e non prevaricare. Non possiamo accettare tutto in nome dell’emergenza o farci bypassare da controlli sistematici di tracciamento.
Sono rimasta interdetta quando ho sentito la notizia che in Israele, Paese all’avanguardia nel campo della sicurezza, il primo ministro Netanyahu, in nome di una tecnologia al servizio del cittadino, ha suggerito che i bambini vengano sottoposti a microchip, una sorta di sensore d’allarme che suona quando ci si avvicina troppo per aiutare a garantire la distanza sociale.
Da che mondo e mondo le epidemie ci sono sempre state e sono state affrontate e superate. Noi italiani, per indole, non siamo abituati al distanziamento. Non riusciamo a stare lontani l’uno dall’altra nel gestire i rapporti personali ma neanche professionali. Ci piace guardarci negli occhi anche se distanziati, piuttosto che attraverso uno schermo. Allo stesso tempo ci piace essere liberi di decidere della nostra vita e di gestire le cose con il nostro consenso. Insomma, prevale in noi questa esigenza di autonomia nelle decisioni che è la nostra caratteristica di senso dell’umanità.
Bisogna rimettere al centro le persone anche nella stessa ricerca medica e nella capacità di fare diagnosi, piuttosto che la ricerca continua di protocolli standardizzati che oltrepassano il limite per omologare i pazienti senza garantire necessariamente una cura migliore.
Ricordiamoci che la tecnologia nella burocrazia statale ci ha rallentato. Lo stesso Bill Gates, fondatore della Microsoft, uomo più ricco del mondo e filantropo, nonostante anni fa avesse parlato del rischio mondiale di una diffusione di un virus altamente contagioso e allo stesso tempo, attraverso la sua Fondazione beneficenza risulti essere il secondo finanziatore dell’OMS, non è riuscito a garantire la pronta risposta da parte dell’OMS nell’affrontare con la massima efficienza la pandemia.
Allo stesso modo l’approccio diagnostico al Covid-19, in Italia si è imbrigliato tra protocolli e permessi che hanno causato ritardi che si sono rivelati fatali. Ancora oggi, in alcune regioni la terapia con il Plasma immune, che è quella che si è rivelata più risolutiva, non è stata valutata o accettata in quanto, nonostante sia un metodo antico, era considerata fuori protocollo. È attraverso le attività svolta dai medici sul territorio con la possibilità di effettuare tamponi e test sierologici che si può comprendere lo spostamento del virus e tutelare la salute dei cittadini.
Molte strutture sanitarie pubbliche sono state riconvertite in ricoveri di pazienti Covid provenienti dalle RSA implicate nel contagio e considerato che gli ambulatori privati per fare test sierologici e tamponi sono stati fino a poco fa chiusi, questo ha paradossalmente impedito una mappatura adeguata.
E allora lancio un appello: che si definisca il prima possibile un protocollo sanitario unico, sulla prescrizione sistematica di tamponi e test sierologici per garantire a tutti i cittadini un accesso omogeneo a questi esami e, allo stesso tempo, evitare il possibile falsamento dei dati ufficiali sulla pandemia che vede forse, l’Italia come uno dei paesi più penalizzati da dati disomogenei e dalla conseguente percezione comune.
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