Culture

Guardare il cielo per vedere noi stessi: i satelliti di Paglen

 

Torino, 14 ott. (askanews) - Satelliti "non funzionali" che sono veri e propri oggetti d'arte, capaci di ridefinire uno spazio, nel senso di luogo che li ospita, e al tempo stesso portarci a riflettere sullo spazio, quello che c'è al di là del nostro orizzonte terreste e che è diventato sempre più un ambiente colonizzato in senso militare o commerciale. La mostra "Unseen Stars" dell'artista americano Trevor Paglen alle Officine Grandi Riparazioni di Torino è qualcosa che colpisce, perché implica sia una relazione con l'alterità della dimensione extra terrestre sia un ragionamento sulla scienza e il modo in cui la usiamo. E poi c'è il cielo, che, come ci insegna Kant, è il luogo per eccellenza del sublime."Penso che la nostra relazione con il cielo notturno - ha spiegato Trevor Paglen ad askanews - sia simile a quella con uno specchio. Guardiamo il cielo per vedere noi stessi, cerchiamo di prevedere il futuro attraverso l'astrologia oppure cerchiamo, con il telescopio Hubble, di arrivare alla fine dell'universo, il che ci porta alle domande fondamentali: chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando".I satelliti di Paglen, oggetti quasi alieni nella loro bellezza, sono strutture in grado di orbitare, di diventare "stelle temporanee", ma sono anche presenze, manifestazioni di una pratica artistica complessa e larga. A curare la mostra torinese è Ilaria Bonacossa."Il suo lavoro su questa idea di usare lo spazio per un fine artistico per creare una stella orbitante intorno all'universo - ci ha spiegato la direttrice di Artissima - si ispira poi al lavoro di Malevic e all'idea dello Sputnik come gesto estremo di arte suprematista e mi sembrava molto affascinante in un momento in cui si discute molto anche del mondo, del suo ecosistema, dei suoi equilibri".Già, perché essendo specchi, questi satelliti sono concepiti per rimandarci un'immagine di noi stessi, sono opere che innescano la riflessione sul nostro mondo e sono anche dispositivi politici, perché offrono la possibilità di mettere in discussione, per esempio, la militarizzazione del cielo oppure l'onnipresenza di strumenti di sorveglianza."Queste opere - ha aggiunto l'artista - fanno parte di un gruppo di lavori che io chiamo 'oggetti impossibili', perché la loro logica contraddice quella del settore industriale di cui sono parte: per esempio, un Internet che non sia in grado di spiarci, satelliti che non siano armi e non siano strumenti di sorveglianza né abbiano fini commerciali. Cerco insomma di creare oggetti che sono l'esatto opposto di tutti gli altri oggetti dello stesso tipo e questa è l'idea che sta al fondo anche di questi lavori"."Uno dei concetti base intorno al suo lavoro - ci ha detto ancora Ilaria Bonacossa - è che la tecnologia e la tecnica non sono neutrali hanno sempre dietro un desiderio e una visione politica".I lavori però, queste stelle non viste, sono anche, a tutti gli effetti, opere d'arte. E guardandole, qui in OGR, ma soprattutto pensandole in relazione all'ambiente spaziale, viene in mente una forma aggiornata di Land Art."Gli artisti della Land Art - ha concluso la curatrice - si sono andati ad appropriare del deserto, degli spazi naturali per re-immaginare un rapporto con il mondo, così in qualche modo lui va a riappropriarsi dello spazio proprio per creare una problematicità".E il problema principale, che però forse contiene anche la propria soluzione, è che pur guardando il più lontano possibile gli oggetti di Trevor Paglen non possono fare altro che rimandarci la nostra immagine, una dimensione dalla quale non è possibile fuggire.