Dalla Tav alle Olimpiadi di Torino. Tutta la verità sulla 'ndrangheta al Nord

“Sono stato io ad aprire agli inquirenti il libro della ’ndrangheta.” Questa è la storia dell’uomo che per primo ha raccontato l’infiltrazione della ’ndrangheta nel Nordovest d’Italia, in particolare in Piemonte e in Liguria. Si chiama Rocco Varacalli, la sua è un’epopea criminale che inizia in Calabria e finisce a Torino. Nel mezzo scorre una vita violenta, qui raccontata in prima persona e dall’interno dell’organizzazione. Più volte arrestato,Varacalli è stato condannato per traffico di stupefacenti. Dodici anni di militanza che gli hanno valso contatti di primissimo livello nell’onorata società, fino alla decisione di diventare testimone di giustizia. La sua confessione è diventata l’architrave dell’inchiesta Minotauro che nel giugno 2011 ha portato all’arresto di 150 persone e al coinvolgimento di politici, assessori, consiglieri regionali e imprenditori.
L’alta velocità, i cantieri delle Olimpiadi invernali a Torino, la costruzione del centro commerciale Le Gru di Grugliasco (Torino) con le famiglie calabresi che stringono la mano a Berlusconi il giorno dell’inaugurazione, il porto di Imperia in Liguria. E poi il traffico internazionale di droga dall’America del Sud all’Europa e alle grandi città dell’Italia del Nord, passando per l’Africa. Varacalli racconta tutto: la scelta di pentirsi, le pressioni della famiglia, il disconoscimento, le minacce, le stragi e gli omicidi. E come funziona l’organizzazione. La sua testimonianza, giudicata attendibile da almeno due sentenze, è drammatica. Ora politici e amministratori non possono più far finta di niente e dire: io non sapevo. Troppi si sono fatti usare e hanno usato la malavita calabrese per vincere le loro battaglie personali e guadagnare consenso. Intanto i processi vanno avanti e Varacalli continua a definirsi un morto che cammina.
Federico Monga vive a Napoli dove, dal luglio del 2010, è vicedirettore del quotidiano “Il Mattino”. Ha iniziato l’attività giornalistica collaborando con “l’Unità” e il quotidiano “La Provincia Cosentina”. È stato caposervizio al “Giornale del Piemonte”, poi è passato a “La Stampa”, dove ha ricoperto l’incarico di responsabile dell’inserto “Tuttosoldi” e di vicecaporedattore all’Economia e alla Cronaca di Torino. SONO UN UOMO MORTO è il suo primo libro. Rocco Varacalli, nato a Natile di Careri (Reggio Calabria) nel 1970, affiliato alla ’ndrangheta calabrese dal 1994, ha trafficato droga per vent’anni, a partire dal 1987. Dopo l’arresto nel 2006 ha deciso di pentirsi e di collaborare con la giustizia. Padre di quattro figli, arrestato sette volte e condannato a diciassette anni in Cassazione come mandante di un omicidio, ha vissuto in località segrete. Ora è detenuto nel carcere di Torino. |
Leggi l'estratto dal libro "SONO UN UOMO MORTO" (Chiarelettere editore)
Una vita maledetta
Le lunghe conversazioni che abbiamo intrattenuto di persona e al telefono hanno fatto emergere la figura di un uomo dalle molte sfaccettature. Varacalli ha spacciato droga per almeno vent’anni. È stato arrestato sette volte, è stato latitante. È stato condannato tre volte per traffico di stupefacenti. Ha messo al mondo quattro figli con due donne diverse. Sulla sua testa pende anche una condanna in Cassazione a diciassette anni come mandante di un omicidio. Varacalli ha sempre sostenuto di aver solamente assistito all’assassinio, ma i giudici, dopo clamorosi colpi di scena tra primo e secondo grado, non gli hanno mai creduto fino in fondo, nonostante la procura abbia sempre presentato ricorso per alleviare il capo di imputazione, e quindi la pena.
Dopo aver abbandonato volontariamente il programma di protezione, è stato accusato di aver commesso nuovi reati: l’omicidio di un pastore in Sardegna, rapina, furto e di nuovo traffico di stupefacenti. Il pentimento per Varacalli non ha dunque significato l’abbandono di una vita ai limiti della legalità. Certamente è un uomo passionale, abituato a prendere decisioni fondamentali per la sua vita più sull’onda dell’istinto che della ragione. Ha una spiccata capacità di ricostruire vicende e rapporti e una memoria di ferro che ha impressionato persino i magistrati. È in grado di ricordare a distanza di anni nomi, cognomi, targhe e modelli di macchine, luoghi, peso, costo e provenienza delle partite di droga. Ha un senso della giustizia assolutamente personale ed è incapace, per la sua stessa condizione di pentito che ha dovuto rinunciare agli affetti familiari, di distinguere la vita privata dalle regole e dai codici di procedura penale.
Abbandonato dalla moglie e dalle figlie, stanche di vivere sotto protezione in Sardegna, Varacalli ondeggia: collabora con la giustizia e commette nuovi reati, un po’ per ripicca nei confronti di una magistratura che, a suo dire, non lo capisce e forse non lo coccola come dovrebbe, un po’ perché, come molti pentiti, non riesce a tagliare in modo definitivo il cordone ombelicale che lo lega al crimine. La decisione di collaborare è per lui una sorta di spugna che dovrebbe cancellare tutto il passato e consentirgli di godere di una totale impunità. La vita del Varacalli pentito è maledetta quanto quella da ’ndranghetista. Fatta di trasferimenti sotto scorta, caserme, aule di tribunale, frequentazioni pericolose, arresti, lontananza dagli affetti più cari, incontri fugaci con le figlie, amicizie, tradimenti, difficoltà economiche. E con la paura di essere ucciso da un momento all’altro.
La prima fase del processo Minotauro, che si è svolta a Torino il 2 ottobre 2012 per i 72 imputati che avevano deciso di affidarsi al rito abbreviato, si è conclusa con 58 condanne, per un totale di 370 anni di carcere. Per tutti è stata contestata l’aggravante dell’associazione di stampo mafioso. Il lungo elenco di beni confiscati dà un’idea del grado di penetrazione degli uomini della ’ndrangheta nell’economia ufficiale: un centinaio di abitazioni tra il Torinese e la Calabria, decine di terreni e quote in imprese edili, società immobiliari, azioni, obbligazioni e fondi di investimento, conti correnti e postali. Una ricchezza sporca accumulata di nascosto negli anni, in mezzo alla quotidianità delle persone per bene.
La testimonianza di Varacalli ha alzato il velo su un’organizzazione criminale che ha nel suo dna l’esigenza di nascondersi, di non dare mai nell’occhio, di mimetizzarsi tra le villette a schiera dei quartieri residenziali delle grandi città e dei paesi di provincia. Forse proprio per questo è riuscita a penetrare così in profondità nel tessuto imprenditoriale e politico del Nord, riuscendo al tempo stesso a rendersi invisibile. Al punto che fino a qualche anno fa pochi credevano alla sua esistenza.
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