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Culture
Gimme Danger, gli Stooges visti da Jim Jarmusch
di Francesco Riccardi 
 
Chi l'avrebbe mai detto? Le radici del rock più sporco e ribelle possono arrivare fino ai programmi per bambini degli anni Cinquanta, popolati di cowboy e clown invero inquietanti. E si mischiano con kolossal hollywoodiani, musica d'avanguardia, concetti base di comunismo e blues di Chicago. Lo racconta Iggy Pop, al secolo Jim Osterberg, a Jim Jarmusch, dietro la macchina presa per narrare con "Gimme Danger" (presentato al Milano Film Festival, distribuito in Italia dalla Bim) la storia degli Stooges, tra le band più importanti e influenti di sempre. 
 
Usiamo il termine band, "gruppo", ed è giusto, ma sarebbe più esatto usare un altro termine inglese: "act". Perché gli Stooges sono stati una rivoluzione ad ogni livello: dalla scrittura delle canzoni alla ricerca del suono alle performance sul palco. E l'influenza non si è fermata all'aspetto sonoro, ma si è tradotta in una sensibilità che, dal punk in poi, ha permeato tantissime aree della cultura contemporanea. Lo stesso cinema di Jarmusch ne è una dimostrazione, anche se Gimme Danger è un lavoro più tradizionale di quanto ci si possa aspettare. Ma oggi Iggy Pop è pop davvero. Nel 1973, quando gli Stooges si sciolsero, il pericolo citato nel titolo era reale, e la sorella di Ron e Scott Asheton, membri fondatori, ricorda la fine di quell'esperienza come un enorme sollievo: non le sembrava scontato che i suoi fratelli fossero ancora vivi.
 
Iggy Pop non è un osservatore banale. Ricorda con divertimento caratteri, luoghi, scelte, situazioni. Si è formato come batterista, ma decide di cambiare ruolo perché stanco "di vedere i culi degli altri davanti a sé". Cresciuto in Michigan, inevitabilmente viene attratto dalla musica nera di Chicago, e allo stesso tempo non gli sfuggono i fermenti artistici e politici dell'università di Ann Arbor,la sua città. Forma gli Stooges alla fine degli anni Sessanta con i fratelli Asheton, all'ombra dell'hard rock estremamento politicizzato degli MC5. Ma a Iggy non interessa un impegno politico diretto, quanto dare vita a un suono che colga la violenza di cui è carica la vita americana del periodo. E che spazzi via la carineria ipocrita in cui era sfociata, secondo lui, l'esperienza dei figli dei fiori partita dalla California. Gli Stooges decidono di vivere in una casa occupata e di dividere i compensi in parti uguali. Il nome viene dal famoso trio comico, che garantisce l'autorizzazione: "Fate come cazzo volete, basta che non vi chiamate i Tre Stooges". Il primo album, omonimo, è inciso a New York, sotto la guida di John Cale, la leggenda dei Velvet Underground: "Lui e Nico sembravano Morticia e Gomez della Famiglia Addams". Il secondo, Fun House è un'esperienza californiana al rovescio: niente sole né buoni sentimenti, nonostante lo studio a Los Angeles, ma una sterzata verso il caos con venature free jazz. Il terzo, Raw Power, con un nuovo chitarrista in formazione, nasce a Londra sotto la supervisione di David Bowie. In mezzo, dipendenze da droghe pesanti, concerti furenti, incontri memorabili e l'invenzione dello stage dive, con Iggy che si butta senza rete sulle prime file. Una carriera da manuale dell'underground, esemplare per le future generazioni punk e tale da generare una reunion - "reunification" preferisce Iggy - solo dopo tre decenni dopo, negli anni Duemila, prima della scomparsa dei fratelli Asheton.
 
Il materiale d'archivio montato da Jarmusch non è moltissimo, è forse più importante il racconto dei protagonisti, a partire da Iggy. Il regista, da fan, ci tiene a rendere un buon servizio ai suoi idoli. E per quanti episodi dolorosi possa contenere questa storia, non si può non rimanere avvinti e sorridere con Iggy di quel caos che è riuscito a generare così tanta creatività.
 
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