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Culture
Le radici del glicine, storia di una casa occupata

Via Correggio 18. Milano. Via Correggio, una lunga strada che unisce i quartieri alti vicini alla Fiera, alla periferia acquattata lungo la circonvallazione esterna. Un caseggiato, una ex fabbrica, che dal 1975 al 1984 viene occupato. Adesso un libro Le radici del glicine, Agenzia X, 2017,  a cura di Massimo Pirotta, ripercorre la storia della piccola comunità che lo ha abitato, e insieme a quella storia lascia intravvedere la storia, forse sgangherata, approssimativa, esuberante, fatta di punk, hippies, anarchici, ma anche famiglie operaie, ex partigiani, emarginati, tutti stretti attorno all’ideale di una vita comunitaria, senza regole o pregiudizi, fatta di solidarietà e generosità.

Il tempo, come si dice, la spazzerà via. E insieme spazzerà via le idee e gli incerti scopi di allora, quando gruppi musicali come gli Area (e il loro funambolico impresario, Gennaro Sassi) o teatrali come il Living, si mescolavano alla gente, cercando a tentoni vie alternative alla, non di rado imbalsamata, ufficialità borghese.

Una storia parallela ma lontana da quella, violenta e votata allo scontro, dei gruppi extraparlamentari e terroristici che, perso ogni legame con il popolo, inseguivano le deliranti astrazioni della palingenesi sociale e politica. Il libro, che negli apparati presenta una ricca bibliografia e numerose foto, è una collezione di ritratti (Mimì, Stefano, Marco, Milena, la famiglia Romeo…) che hanno il sapore, e a tratti anche la malinconia, di certe vecchie fotografie religiosamente tenute nel cassetto e strette con l’elastico. Ma non è solo la nostalgia per il tempo passato, per la giovinezza perduta, quanto lo sforzo di ricreare «quell’atmosfera allegra che nasceva dall’incontro di tantissimi giovani provenienti da esperienze completamente diverse e che lì, magari sotto l’ombra di due glicini in fiore, trovavano dei punti di contatto». E il glicine, la grande terrazza dei pasti e delle discussioni infinite, sono al centro della rievocazione, rivendicati come si rivendica una bandiera, una speranza o anche solo la magia di una stagione: «Il tavolo era situato sotto l’incrocio dei due glicini. Chi ha mangiato con noi su quel terrazzo non potrà mai dimenticare la bellezza della primavera con l’intreccio dei colori dei petali bianchi e viola che a volte se c’era un po’ di vento ti cadevano nel piatto».

Tutti i protagonisti di quella esperienza si presentano o vengono presentati in modo spontaneo e diretto: «Mio padre faceva il salumiere in un paesino della Brianza e aveva un’osteria e tabaccheria», «Bruno era un abituale frequentatore di via Correggio 18. Nato a Codigoro nel Polesine, era stato partigiano e una volta finita la guerra anche sindaco del suo paese», «Papà operaio, mamma casalinga, sorella impiegata, io segretaria d’azienda», «Sono nato a Lissone nella terra della balena bianca democristiana, cattolica e brianzola», «Sono nata a Marsala. A 14 anni, ancora minorenne, me ne sono andata di casa», «Sono nato nel 1956, figlio di una strana coppia. Mio padre, originario di Volterra, era un nobile decaduto, spiantato, senza una lira in tasca e rovinato dalla guerra», «Provengo da una famiglia di piccoli proprietari agricoli, da adolescente volevo farmi prete» ecc.

Le radici del glicine, bellissimo titolo, è uno sguardo sulla superficie increspata di una storia frettolosamente archiviata o relegata negli scantinati dove si mettono i rifiuti o le bizzarrie della società. Ma lo sgombero di quella casa il 15 maggio del 1984, se ripristina la legalità e soddisfa la voglia mai sopita dei borghesi di avere tutto a posto, tendine alle finestre comprese, lascia un po’ di amarezza in chi, nel dissolversi di quelle utopie impulsive e ingenue, vede le premesse del nostro mondo, spesso gretto, chiuso negli interessi individuali, ostile a ogni forma di condivisione e mai disposto all’avventura e alla lotta.

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