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Culture
Scrittori da un ducato in fiamme. La recensione

di Alessandra Peluso

 

“Delfini sa che ogni scrittore che abbia ricevuto un’educazione umana è in primo luogo quello di scrivere la mala poesia: una poesia, vale a dire, che si impegni a fare argine al disumano che sta dilagando nel mondo occidentale” (p. 83) e  in “D’Arzo centrale non è mai l’azione, ma la coscienza dell’azione” (p. 141). Questi i tratti peculiari che emergono in “Scrittori da un ducato in fiamme. Delfini, D’Arzo e il Novecento” di Alberto Bertoni.

Un saggio nel quale convergono ostilità, controversie di una terra come quella modenese contraria agli intellettuali, agli scrittori, ai poeti. Un passato, una memoria che magistralmente Bertoni riporta in auge, non certo per suo cruccio, ma come necessità da mostrare alle nuove generazioni perché non si abbattano davanti alle nevrosi quotidiane di territori non soltanto, quelli modenesi, che non consentono una vita facile a chi usa la parola. Oltre ad elementi storici, ad una scrittura doviziosa nei dettagli ed attenta alle fonti, ai documenti, alle lettere dei diversi critici letterari dell’epoca, emergono delle caratteristiche dello stesso Alberto Bertoni. Un’esistenza, infatti, la sua, contrastata da una città, come Modena, che lo stesso dice contraria alla poesia, in quanto fondata sull’economia; eppure, Bertoni resta, anziché andare via e coltiva il suo genio artistico, convinto che il poeta non si genera né rigenera in un ambiente comodo.        

È evidente in “Scrittori da un ducato in fiamme. Delfini, D’Arzo e il Novecento”, la storia turbolenta di Antonio Delfini e Silvio D’Arzo. Due maggiori scrittori del Novecento di Modena e Reggio Emilia, animati da un comune destino di “sbrancati” o “outsider”, di passione, la stessa che ha devoluto Alberto Bertoni nel donare questo testo, come testimonianza, come memoria, senza la quale non si avrebbe un’identità.

Un tratteggio di storia appassionante, quello descritto da Bertoni, intriso di un’attenta valutazione letteraria. Uno spaccato del Novecento ben calibrato. Ne trapelano dalle fessure della lettura: poesia, letteratura, storia, e dunque vita.

E allora si legge: «E il dialogo tra la vecchia e il parroco, intessuto di stupefacenti silenzi tutti propri del più tipico stile darziano, percorre strade che aggirano il problema cattolico del peccato per attingere le più alte questioni umane del rapporto tra l’autenticità spirituale e la sua possibilità di venir detta. Così, il gusto spietato dell’autoanalisi porta necessariamente a riconoscere l’elemento tragico che accompagna ogni ruolo prefissato nella società» (p. 92) . Per l’appunto, questa sorta di autoanalisi attuata da un “intentio profunda” ha generato grandi personalità come quelle di D’Arzo e Delfini, ed è la stessa che anima quella di Alberto Bertoni.             

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