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Economia
A&F, il tracollo del brand: tra l'accusa di razzismo e la picchiata in borsa
Abercrombie

Abercrombie & Fitch, le ragioni di una crisi

Commessi dai muscoli pompati, cassa dritta con musica dance, file interminabili, arredo discutibile: questi quattro ingredienti mischiati tra loro hanno dato vita al cocktail più esclusivo a cavallo tra gli anni ’90 e i primi vagiti del Nuovo Millennio: Abercrombie & Fitch. Un brand che aveva fatto dell’elitismo, dell’esclusione sociale, della definizione di standard elevati di aspetto fisico e censo un mantra di grande successo. Nelle città americane ed europee, giovani bianchi borghesi si ammassavano per poter acquistare felpe, camicie, bermuda e minigonne a prezzi astronomici. Ma è la moda, bellezza. Che val bene una coda e soprattutto qualche umiliazione: perché le taglie sono studiate per esaltare i pregi, ma anche i difetti, di chi le indossa. Bando alle large, dunque, che non rispondono al concetto di "cliente figo" che il ceo Mike Jeffries vuole che venga puntualmente ricordato. 

A&F: gli scandali e l'accusa di razzismo

Jeffries lo ammette candidamente nel 2006, quando dichiara che “il sex appeal è tutto. Per questo assumiamo persone attraenti: vogliamo che i nostri clienti siano persone attraenti”. È il trionfo del political uncorrect: le accuse di razzismo fioccano, così come quelle di discriminazione. Afroamericani, ispanici, asiatici vengono sistematicamente messi in turno di notte o cortesemente invitati a non presentarsi al lavoro. Gli uffici delle risorse umane stilano classifiche dei commessi più belli da schierare in negozio durante le visite del gran capo e approntano un vademecum di comportamento. Arrivano perfino le accuse di molestie omosessuali nei confronti dei prestanti modelli che lamentano attenzioni eccessive.

Ma tutto viene perdonato al brand che raggiunge il suo apice nel 2007. Le azioni valgono oltre 8 miliardi, l’azienda fattura quasi 4 miliardi e sembra che nessun Wasp, tra Europa e Usa, possa fare a meno delle due lettere più famose: A&F. Poi però qualcosa si rompe, su diversi livelli. Primo, come detto, le accuse di razzismo. Una petizione online già nel 2006 aveva acceso i riflettori sulla vicenda, con il brand guidato da Mike Jeffries che aveva chiuso il contenzioso pagando 40 milioni di dollari. Tuttte queste vicende sono state mirabilmente raccontate dal documentario White Hot trasmesso su Netflix dallo scorso aprile.

Il clima è cambiato

Ma è il clima da anni ’80-bis che si frantuma. Il tracollo di Lehman Brothers, la crisi economica, le guerre in tutto il mondo tolgono quella patina di ingenua guasconeria ai giovani americani ed europei, che nel frattempo sono cresciuti e si affacciano al mondo del lavoro. Si inizia anche a pensare che pagare centinaia di dollari per felpe o pantaloni sia un delitto, quando ci sono marchi come Zara e H&M che danno la stura al "fast fashion".

Il diffondersi di una maggiore consapevolezza sui comportamenti “fair” – come direbbero gli anglosassoni, cioè giusti e rispettosi – e la rapida ascesa del fast fashion hanno penalizzato Abercrombie & Fitch forse più di qualsiasi discorso politically correct. Il gruppo ha chiuso l'anno fiscale 2008 con un fatturato di 3,5 miliardi di dollari, in flessione del 6% rispetto al 2007 e un utile netto di 272,2 milioni di dollari (7,7% sul fatturato). L’anno dopo, con le azioni che hanno perso il 70% del loro valore, l’ulteriore tracollo: fatturato pari a 2,93 miliardi di dollari, con una flessione del 16% rispetto al precedente anno fiscale. Anche l'utile fa un balzo indietro, scendendo a quota 0,3 milioni.

L’addio di Mike Jeffries, messo alla porta per i suoi comportamenti poco accettabili, ma anche per risultati al di sotto delle attese, dà un po’ di ossigeno al brand che torna a crescere grazie anche a un nuovo focus su abiti a prezzi più contenuti (con ticket massimo intorno ai 150 dollari), maggiore inclusività sociale e più attenzione all’ambiente. Ma non basta, perché è proprio il modello di business a essere venuto meno

I cambiamenti che non funzionano

Prova ne sia che, nonostante diverse circonvoluzioni tra un cambio di lettering e una modifica dell’aspetto delle camicie la palla è stata spinta solo un po’ più in là. Dopo la giornata horror di ieri, in cui il titolo ha lasciato sul terreno il 27%, oggi l’azienda sta risalendo complice quella dinamica che gli anglosassoni chiamano “il rimbalzo del gatto morto”, che sarebbe una dinamica normale in cui si comprano azioni di aziende che peggio di così non possono proprio andare. D’altronde, le attese per il trimestre erano di ricavi intorno a 1,1 miliardi, target centrato in pieno. Ma la perdita operativa di 6 milioni e quella netta di 0,27 dollari per azione (mentre gli esperti attendevano un utile di 8 centesimi per titolo) non possono far guardare con entusiasmo al futuro. 

Il negozio di Milano

A Milano lo storico negozio di Corso Matteotti ha chiuso i battenti già nel 2019, ben prima della pandemia. Oggi la galleria dove un tempo si assiepavano orde di giovani è oggi ritrovo di senza tetto. E anche questo la dice lunga. Il concetto stesso di esclusività del marchio era ormai superato. La progressiva polarizzazione degli acquisti nel mondo del vestiario è un dato di fatto: crescono marchi di grande livello, per non dire lusso; e salgono quelli che costano poco come Zara o H&M. Nel mezzo, la “borghesia” è scomparsa.

 

 

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