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Economia

di Antonio Arricale*

Responsabilità, ovvero, consapevolezza delle conseguenze che derivano dai propri comportamenti e modo di agire. Per uscire dalle secche politiche, economiche e sociali nelle quali il Paese – ai diversi livelli istituzionali – è venuto a trovarsi, credo che la parola da riscoprire sia proprio questa: responsabilità.

Nel senso, cioè, di dovere ciascuno rendere conto – ed eventualmente pagare – degli atti, degli avvenimenti e delle situazioni in cui si ha una parte, si svolge un ruolo. E ciò, tanto più se si occupa un posto di controllo pubblico e, dunque, di tutela e garanzia di un valore collettivo. 

Ovviamente, parlare di responsabilità in assenza di una sanzione oggettiva prevista quale conseguenza del comportamento irresponsabile di un soggetto, resta mero esercizio retorico. Se non c’è pena, non c’è responsabilità.

Si prenda, ad esempio, la responsabilità che i revisori dei conti – prima ancora della Banca d’Italia – hanno, in tutta evidenza, nello scandalo dei derivati della Monte dei Paschi di Siena. Essi appaiono, infatti, quantomeno colpevoli di superficialità, se non addirittura negligenza, nelle funzioni di controllo sulla contabilità dell’istituto, esercitate nell’ambito delle applicazioni del diritto societario. Funzioni – è appena il caso di ricordare – che la categoria esercita, ormai da qualche lustro, anche negli Enti locali di cui sono chiamati infatti a controllare spesa e bilanci. 

Sicché, viene da chiedere: in quali faccende era affaccendato il collegio dei revisori dei conti del Mps negli anni che hanno preceduto e, dunque, portato il più antico istituto di credito italiano all’attuale stato di pre- bancarotta? E dov’erano, appunto, generalizzando, i revisori dei conti negli anni di finanza allegra che hanno condotto, infine – sulla scorta di una malintesa riforma del Titolo V della Costituzione – quasi tutte le regioni, le province e i comuni al dissesto o, comunque, ad un passo dal baratro?

Vi risparmio la risposta e anche la fin troppo prevedibile reazione a queste dichiarazioni. Vi invito, allora, a provare a leggere una delle relazioni che questi professionisti sono tenuti –  per legge – a svolgere periodicamente e ad allegare al bilancio, alla fine di ogni esercizio finanziario della società o ente di cui sono stati chiamati a verificare correttezza e legittimità dei conti. Magari, la relazione al bilancio del Mps o di un comune poi andato in dissesto.  Vi imbatterete – ci scommetto – in enunciazioni di principi, raccomandazioni, sollecitazioni, finanche prescrizioni, ma mai in una censura netta, pronunciata apertis verbis, del tipo: di questo passo la banca, la società, il comune fallirà.

Capita, infatti, che nei rari casi in cui una palese compitazione menzognera del bilancio finisca sulla scrivania di un giudice contabile oppure della magistratura ordinaria, è quasi sempre per iniziativa di un soggetto privato che si ritenga, magari, lesionato in un proprio interesse, giammai di un revisore dei conti. Oppure, come avviene negli enti locali, accade che ad adire le vie legali sia in genere la parte politica di opposizione, ma mai il controllore della contabilità in forza del suo ufficio.

A parziale discolpa della categoria, va comunque detto che ruolo e funzioni dei revisori contabili scontano un peccato originale tipicamente italiano: la dipendenza degli organi di controllo dal potere politico. E quest’ultimo, è noto, nell’uso e, più ancora, nell’abuso del potere tutto ama, tranne che essere controllato.

Da qui la riserva di attribuire a sé medesimo, vale a dire, alla maggioranza politica o amministrativa che guida enti e società, la nomina di due terzi dei componenti il collegio, riservando l’altro terzo alla minoranza. Sicché, l’elezione dei revisori, alla fine, è inevitabilmente il risultato di uno scambio, che non a caso porta quasi sempre alla riconferma dei componenti per un secondo mandato e relativa retribuzione.

Ovviamente, il requisito di “terzietà” richiesto al collegio nemmeno si risolve – aggiungo – con l’inversione del rapporto, vale a dire, attribuendo magari alla minoranza l’elezione della maggioranza dei componenti. Né, come per i comuni, da ultimo, attribuendo la nomina dei revisori al prefetto.

Più seriamente, invece, ritengo che la costituzione del collegio dovrebbe avvenire per sorteggio, con limite di mandato e a rotazione presso lo stesso ente o società, in modo da evitare possibili status di soggezione politica, garantendo in questo modo da una parte piena indipendenza e libertà di giudizio del collegio dei revisori, ma pretendendo, di contro, piena responsabilità dall’operato degli stessi.

Se così fosse stato, probabilmente oggi non staremmo a parlare dello scandalo del Monte dei Paschi. E, in ogni caso, sapremmo almeno con chi prendercela, senza generalizzare. Anche perché, l’esperienza insegna: troppi colpevoli, nessuno colpevole.  

*Direttore Caserta Economia

 

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