Portafoglio/ Borsa, Argentina e rischio inflazione. Come investire sotto l'ombrellone
Due cattive notizie per l'Italia sono giunte in settimana quasi contemporaneamente: mentre alla mezzanotte del 30 luglio (ora di New York, a Milano erano le 6 del mattino del 31 luglio), dopo due giorni di trattative ininterrotte ma del tutto inconcludenti, Standard & Poor's ha dichiarato in "default selettivo" l'Argentina (il secondo default in 13 anni, il terzo nell'ultimo quarto di secolo, a ulteriore smentita di chi creda che un default sia "per sempre") e poche ore dopo Eurostat ha annunciato che secondo le sue stime flash l'inflazione nell'area dell'euro è calata a luglio allo 0,4% mensile dallo 0,5% di giugno, sempre più distante da quel 2% annuo che al tempo stesso è il limite che la Bce (e i rappresentanti della Bundesbank in particolare) è pronta ad accettare e obiettivo non troppo segreto di Mario Draghi, che a questo punto potrebbe rompere gli indugi e lanciare un vero e proprio "quantitative easing" già a partire dalla fine dell'anno.
Perché sono due cattive notizie per il "Bel paese" e in particolare per i detentori dei suoi titoli di stato? Perché se l'Argentina fallisce di nuovo su appena 1,5 miliardi di dollari (tra bond in default i cui possessori non hanno accettato la proposta di ristrutturazione del 2005/2010 e relativi interessi) e questo può innescare un effetto-valanga su almeno 29 miliardi di bond in circolazione su cui è presente la clausola di "cross default" (attivabile a richiesta di almeno il 25% dei bondholder e che porterebbe alla richiesta di immediato rimborso dei titoli stessi, richiesta che si sommerebbe a quella già ora in essere da parte dei fondi "avvoltoi" americani, ma anche di migliaia di piccoli obbligazionisti che in teoria beneficiano della sentenza del giudice Griesa di New York), immaginate cosa potrebbe mai accadere se per qualsiasi motivo un giorno a non essere più in grado di pagare puntualmente i suoi debiti fosse l'Italia, paese che ha un debito pubblico di oltre 2.166 miliardi, il cui Pil continua a non crescere che di qualche frazione di punto percentuale ed il cui rapporto debito /Pil è già ora oltre il 135%, ben distante da quel 60% massimo cui dovrebbe in teoria tendere entro il 2020.
Parliamoci chiaro: senza crescita l'Italia o troverà un modo di sottrarsi agli impegni europei senza che questo significhi far schizzare i tassi al livello del 2011, quando il paese venne di fatto "commissariato" con la caduta del governo Berlusconi e l'insediamento del governo tecnico di Mario Monti, o sarà default, con tutte le conseguenze del caso. Perché? Perché per quanto i tassi siano di molto scesi grazie agli sforzi della Bce e delle altre banche centrali il costo medio del debito pubblico resta attorno al 3%-3,5% l'anno (mentre il costo marginale, prendendo ad esempio il rendimento del Btp a 5 anni, è calato all'1,6%), peraltro già un eccellente risultato se si pensa che tre anni or sono il costo medio era pari al 4,5% e quello marginale aveva raggiunto un 6% abbondante (anzi, di fatto i tassi erano sopra il 5% fino ai 2 anni).