La gran confusione
di Guido Camera,
avvocato Tribunale di Milano
Chi è costretto a frequentare quotidianamente le aule dei tribunali può ben rendersi conto, forse meglio di altri, del fatto che il legislatore italiano e le corti italiane - così come del resto accade in tutti gli Stati d’Europa - sono sempre più vincolati ai principi giuridici sovranazionali del diritto europeo.
Non è solo una considerazione tecnica, o meglio non è soprattutto una considerazione tecnica, bensì principalmente politica e sociale, della quale tutti dovremmo tenere maggior conto: a maggior ragione se diverrà legge la norma approvata dal Consiglio dei Ministri la scorsa settimana, che è volta ad introdurre una responsabilità civile dello Stato nei confronti dei cittadini per i casi di violazione manifesta del diritto dell’Unione Europea.
Sono infatti sempre più frequenti i casi in cui una legge italiana, oppure un consolidato orientamento giurisprudenziale italiano, soccombe di fronte alle sentenze di condanna pronunciate nei confronti dell’Italia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Mi vengono subito in mente due casi, ma ce ne sono molti di più: le disposizioni penali italiane che criminalizzavano l’immigrazione clandestina e la datata giurisprudenza della Corte di Cassazione a proposito della natura della confisca delle opere oggetto di lottizzazione abusiva.
Nel primo caso fu una legge ad essere dichiarata contrastante con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, mentre nel secondo è stato un consolidato orientamento giurisprudenziale ad essere – di fatto – stato dichiarato “antieuropeo”.
Ma cosa significa, tutto ciò?
Dal punto di vista professionale, la conseguenza è che nei codici italiani - già oggi - non troviamo più tutte le risposte che ci servono per capire come affrontare un processo: prima di tutto, infatti, gli avvocati italiani devono essere degli avvocati europei, che non devono solo conoscere le norme europee, ma devono assimilarne il substrato culturale. Altrettanto devono fare i giudici italiani, consapevoli del fatto che, a loro volta, sono – in definitiva - dei giudici europei e, se sbagliano, rischiano di esporre l’Italia a condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Non a caso, nei mesi scorsi, l’Europa ha aperto una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia perché la nostra disciplina sulla responsabilità civile per gli errori dei magistrati non copre espressamente le manifeste violazioni del diritto europeo.
Altrettanto devono fare i nostri rappresentanti politici e istituzionali quando scrivono le leggi; agitare gli spettri antieuropei, infatti, serve forse ad acchiappare qualche voto, non certo a rendere un buon servigio agli italiani. Siamo infatti ad un tale punto del percorso di integrazione europea – giuridica, economica e finanche sociale – che sta progressivamente diventando un fattore culturale, non solo tecnico. Dunque, una cosa è non condividere ciò che gli altri partner europei possono volere da noi, e provare a fargli cambiare opinione nelle sedi istituzionali europee, che diventano sempre più importanti e strategiche, anche per ciò che accade all’interno dei nostri confini: un’altra cosa, invece, è volere leggi incompatibili con i principi fondamentali dell’Europa.
Nel primo caso si fa politica, nel secondo solo confusione, che ci presenterà presto un conto molto salato: l’incertezza sui confini dei nostri diritti. Ovvero il terreno su cui prolificano malaffare, corruzione e prepotenza.