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Politica
Coronavirus, l'insolubile problema della riapertura

“In un sacco ci sono 385 tra patate e cipolle. Quante sono le patate?” Il problema non può essere risolto, nemmeno se ad occuparsene è Einstein, buonanima. Perché è mal posto. E un altro problema mal posto è quello della riapertura dell’Italia, dopo il dramma del Covid-19. Se si apre troppo presto, l’epidemia può ripartire alla grande, con migliaia e migliaia di morti; se si apre troppo tardi, forse di virus non morirà più nessuno, ma molti moriranno di fame. E certo fallirà un numero enorme di imprese. Dunque non c’è soluzione. Non solo perché scegliendo una strada l’altra presenta il conto (ed è un conto salato) ma perché, se si adotta una linea di compromesso, c’è il rischio di avere buona parte delle controindicazioni dell’una come dell’altra soluzione.

Sempre che non abbiamo capito male, nella tormenta di parole che ci annebbia la vista, la soluzione adottata dal governo è quella di seguire il parere dei medici. Se si vuol essere ragionevolmente sicuri che l’epidemia non riprenda ad uccidere, bisogna aspettare ancora e rimanere chiusi in casa, operai inclusi. A maggio si vedrà. E nel seguire il loro consiglio i politici potrebbero essere influenzati dall’esperienza. Quando si tratta di faccende in cui possono morire le persone, la magistratura è in agguato. Se domani ci fossero dei morti perché, andando contro il parere dei medici, si sono riaperte le fabbriche troppo presto, come salvare coloro che hanno deciso dall’accusa di omicidio colposo? Fra gli altri casi la legge ravvisa la colpa quando l’evento si verifica “per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. E la medicina rientra fra le discipline. C’è pericolo di morte per cause sanitarie? In questo caso, per evitarlo, comandano i medici. Ed ecco spiegato il comportamento del governo.

Ma, nella realtà, bisogna anche tenere conto dell’economia. È bello che la gente non muoia, ma rimane anche l’imprescindibile necessità di mangiare (una necessità che riconoscono anche i medici) e se non si lavora, come insegna un vecchio proverbio, non si mangia. E allora i politici devono bilanciare queste due necessità. Ma, quando sarà morta una decina di vecchi o, Dio non voglia, dieci operai, i politici come si giustificheranno dinanzi ai magistrati? I medici non gliel’avevano forse detto che bisognava aspettare che non ci fosse più il minimo rischio di una ripartenza del virus?

E qui si vede quanto sia stupido il pangiuridicismo. L’idea che ultimi giudici della realtà siano o possano essere i magistrati, chiusi insieme con i loro codici in una stanza dalle finestre coi doppi vetri, totalmente insensibili alle necessità concrete, è infantile e, in fin dei conti, disastrosa.

Quand’ero giovane, e tentavo di divenire penalista, ebbi a che fare con un caso che non mi è mai più uscito di mente. Un contadino aveva in campagna un rudere di casa, le cui finestre non avevano più serramenti, sicché i ragazzini della zona a volte vi entravano per fare i loro bisogni o per altro. Poiché la cosa gli seccava, l’uomo chiuse le finestre con grossi “mattoni” in pietra lavica, poggiati sui davanzali a fare muro. Avvenne poi che un ragazzino, ostinandosi ad entrare, e aggrappandosi ad una di quelle grosse pietre, se la fece rovinare addosso, rimanendo ucciso. L’uomo fu condannato per omicidio colposo.

Invano si fece notare al giudice che il contadino operava nel suo terreno e il ragazzo nella proprietà altrui. Che il ragazzino non avrebbe dovuto ostinarsi a penetrare in un edificio non suo. Soprattutto che, se pure era vero che quel “muro” non era legato da malta, non erano legati da malta decine di chilometri di muri “a crudo”, cioè senza malta, anche lungo strade aperte a tutti, nell’intera Sicilia. Dunque tutti quelli che aveva costruito quei muri sarebbero stati colpevoli di omicidio colposo, se qualcuno si fosse ostinato a scavalcarli? Non ci fu verso. Secondo il magistrato l’uomo avrebbe dovuto capire che un “muro” di quel tipo era instabile e dunque pericoloso.

I rigoristi modello “Il fatto quotidiano”, quelli che per partito preso devono dare ragione ai giudici, potrebbero dire che l’evento era prevedibile e quella morte poteva essere evitata. Dimenticando quante disgrazie si eviterebbero, se si potessero in concreto prevedere. A quel giudice si potrebbe chiedere se non ha mai lasciato un coltello incustodito, in casa, anche se c’è in giro un bambino. Se non ha mai lasciato la macchina aperta, per traversare la strada e andare a comprare un giornale. Se non ha mille volte fatto cose che, coniugate con l’intraprendente stupidità del prossimo, avrebbero potuto condurre ad eventi dannosi. In fondo mettendo insieme una sedia e una finestra qualunque bambino di tre anni può cadere giù dal quinto pianto. E Dio sa quante volte è successo. Che facciamo, mettiamo le grate di ferro alle finestre del quinto piano? O facciamo a meno delle sedie? E chi mai può dire in coscienza di non aver perso di vista per un paio di minuti il frugoletto di tre anni che gira per casa? E se tutti ci comportiamo così, perché mai dovremmo condannare chi si è comportato come noi, anche se lui ha avuto la disgrazia che ne conseguisse un evento tragico?

Un’eternità fa, studiando diritto penale, mi si parlò di “azione socialmente adeguata”. Questa teoria sosteneva che un’azione era antigiuridica, e penalmente punibile, quando diversa e contraria a ciò che la società riteneva normale. Nei primi anni del Ventesimo Secolo una ragazza in minigonna sarebbe stata arrestata per oltraggio al pudore, ma non certo negli ultimi anni dello stesso secolo. Questo significa che quell’azione prima non era socialmente adeguata e poi invece lo era divenuta. Non era cambiata l’azione, era cambiato il giudizio che ne dava la società.

Così, per risolvere il problema del contadino e della sua finestra, bisognerebbe prendere un buon padre di famiglia e fargli vedere un filmato in cui un contadino chiude una finestra con delle grosse pietre squadrate, fino a creare un “muro a crudo”, precisandogli che la casa è di sua proprietà, è all’interno di una sua proprietà, e che lui è bravo a costruire questo genere di “muri”. Infine gli si chiederebbe: “Ha commesso qualche reato?” Se la risposta fosse no, bisognerebbe assolvere l’uomo quand’anche dopo ci fosse un incidente mortale. Invece spesso i giudici partono dalla fine. La domanda che si pongono è: “L’accusato, con una maggiore cura, avrebbe potuto evitare l’evento?” e questa non è la domanda giusta. La domanda giusta è: “L’imputato si è comportato normalmente? La sua azione era socialmente adeguata o inadeguata?”

Nel caso dei nostri governanti – che Dio li abbia in gloria – essi dovranno scegliere fra opposte necessità e opposti pericoli, e nulla e nessuno potrà mai garantire che la loro decisione sia la migliore in assoluto. Per questa ragione chi amministra il diritto penale dovrebbe astenersi dal mettere becco nella politica. Quei ministri potranno anche avere sbagliato, ma dal momento che era praticamente impossibile non sbagliare; dal momento che non è detto che altri avrebbero fatto meglio di loro; dal momento che sul loro operato si può dare soltanto un giudizio politico, la cosa non riguarda la magistratura. Il giudizio sui politici lo daranno gli elettori alle prossime elezioni.

Se soltanto in Italia si riuscisse a distinguere la politica dal diritto penale, molte cose andrebbero meglio.

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