Citando Pascoli, si potrebbe dire che c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico, nel ritorno di Enrico Letta al vertice del PD, 7 anni dopo il tutt’altro che sereno sfratto da Palazzo Chigi, notificatogli da Matteo Renzi.
Non a caso, oltre al nipote di Gianni Letta, tornano sul proscenio del teatrino Romano Prodi e Giuseppe Conte. Tutti “vittime” del senatore di Rignano. Al primo ancora brucia la mancata elezione al Quirinale, nel 2013, agli altri due il traumatico sfratto, firmato Matteo, da Palazzo Chigi.
Letta-acclamato dai dirigenti, che sferzava : Draghi parlerebbe di “farisaico consenso”-dovrà far risalire il Pd dal 16 oltre al 20% per dettare un’agenda riformista e non populista e competere per un candidato premier non grillino. Non basta dire : “siamo alternativi a Meloni e Salvini”, B.non citato, per rispetto a zio Gianni...
“Progressisti nei valori, riformisti nel merito, radicali nei comportamenti. Serve un nuovo PD”, ha detto Letta, riproponendo lo ius soli, bocciato dal centrodestra. È legittimo, tuttavia, esprimere qualche dubbio sul rinnovamento di un partito, che richiama, da Parigi, in servizio un ex di passate, non trionfali, stagioni politiche. E tra un anno candiderà al Colle Prodi, 83 anni che, se eletto, lascerà a 90 anni. Romano organizzò una seduta spiritica, per cercare la prigione BR di Aldo Moro, nel tragico 1978, quando era ministro dell’Industria dell’eterno Andreotti. Poi passò a guidare, per 8 anni, un carrozzone clientelare, l’IRI, promosso a via Veneto grazie alle scelte e ai “ragionamendi” del segretario della DC, De Mita.
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