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Politica
Giustizia, cosa non va del piano leghista. La proposta Bongiorno ai raggi X

Caro direttore,

la proposta della Lega sulla giustizia ha il pregio della visione complessiva e l’ambizione di definire un quadro d’insieme di valori e di regole del processo penale, ovviamente anche “discutibili” (e infatti lo saranno nella sede propria, il Parlamento). E non c’è dubbio, fin d’ora e pur senza conoscere il testo normativo, che sarà tecnicamente ineccepibile, essendo scritto e coordinato dall’avvocata penalista Giulia Bongiorno, nonché parlamentare alla sua terza legislatura e ministra nel precedente governo. Quindi non solo giurista, ma esperta dei meccanismi delle aule di giustizia e di quelle parlamentari.

I meriti, tuttavia, a mio modestissimo avviso, non sembrano andare oltre questo.

La prima osservazione è di metodo: la riforma del Csm è urgente ed è in colpevole attesa da un anno. E all’urgenza per la quale si è reclamato pubblicamente l’intervento del presidente della Repubblica - il quale ha avuto buon gioco nel replicare che già da un anno ha deplorato le degenerazioni e sollecitato il Parlamento a intervenire - si risponde con un testo ampio e complesso, che mette insieme Csm, organizzazione giudiziaria e giustizia penale, e impegnerebbe il Parlamento per non meno di un anno oltre a richiedere almeno tre modifiche costituzionali (due delle quali proprio per il Csm)? E se non lo si è fatto con la precedente maggioranza ora inesistente, e durante il precedente governo, nel quale - pur nella profonda diversità fra Lega e M5S - la giustizia penale rappresentava un terreno di parziale ma ampia convergenza (basti pensare all’approvazione della “spazzacorrotti”), come si pensa di poter avere successo ora?

Nel merito. Molte affermazioni, condivisibili, sono per ora solo di principio. Come non condividere l’avversione al correntismo e la necessità che il giudizio non sia mai influenzato dalle tesi dell’accusa, e non già per l’autorevolezza e la persuasività del pubblico ministero, ma per le appartenenze che potrebbero influenzare le valutazioni per la carriera? Potrebbe valere anche il sospetto contrario: assolvere per mortificare un pubblico ministero ambizioso, di corrente avversa... Ipotesi remote, già oggi, in base alle statistiche sulle assoluzioni in difformità dalle richieste dell’accusa. 

Il sospetto è più corposo durante l’indagine preliminare, per l’elevato grado di appiattimento del Gip sulle richieste del Pubblico ministero. Ma si è sempre ritenuto, a mio avviso giustamente, che ciò sia dovuto più alla contiguità fisica e di lavoro, che non a un complesso sistema di condizionamento “politico”. E forse perché, per tanti motivi (soprattutto economici, ma anche attitudinali), non sono mai decollate le indagini difensive.

La proposta affronta perciò il nodo di fondo: separazione delle carriere, oggi certamente meno tabù del passato (anche per l’azione degli avvocati penalisti e delle Camere penali) e non estranea a parti significative della magistratura. Diffusa fra gli stessi pubblici ministeri (e questo dovrebbe essere un campanello d’allarme...) più che fra i giudici. Apertamente condivisa, all’esordio del nuovo processo penale, da Giovanni Falcone, che la riteneva inevitabile nel rito accusatorio; e quando l’ufficio istruzione del vecchio modello inquisitorio stava per concludere la sua esistenza, lui non seguì la maggior parte dei giudici istruttori nel passaggio al nuovo ufficio del Gip, con funzioni di giudici delle indagini o delle udienze preliminari. Falcone chiese di passare alla procura della Repubblica. Riteneva che il “giudice istruttore” fosse più prossimo al pubblico ministero che non al giudice: lui, che aveva una solida cultura della giurisdizione, era stato giudice e faceva il Pm senza mai perdere di vista gli argomenti della difesa e la sostenibilità dell’accusa. 

Resta però il timore di una eterogenesi dei fini, con uno dei due Csm composto (per la quota “togata”) di soli pubblici ministeri e autonomo nel governo di 2mila magistrati, un quinto del totale. Da una parte il timore di un potere eccessivo; dall’altra il rischio di essere attratti in una logica “di polizia”, preziosa quando della polizia giudiziaria sia lo stesso Pubblico ministero a “disporre”, pericolosa quando fosse all’origine di una nuova contiguità impropria.

Si aggiunga che già oggi il passaggio fra il ruolo inquirente e quello giudicante rappresenta una eccezione, più che la regola.

In ogni caso, la separazione della carriere accompagnata dallo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura (non indispensabile allo scopo, ma previsto dal progetto annunciato) richiederebbe una modifica costituzionale. E così la composizione: se diventa paritaria fra “laici” e togati, richiede di modificare il rapporto due terzi / un terzo stabilito in Costituzione (la quale non determina il numero dei consiglieri, che infatti è stato modificato più volte in passato).

Anche il sorteggio delle candidature (non dei consiglieri) in numero multiplo degli eleggibili nelle successive votazioni da parte dei magistrati, non è più un tabù. Ma, almeno a mio avviso, è molto dubbio che possa rappresentare la soluzione. Proprio pochi giorni fa, qui, mi sono permesso di rilanciare le “primarie”, che considero più appropriate. Il sorteggio potrebbe pescare persone inadatte. Sempre meglio che quelle scorrette, si dirà. Ed è vero, se la situazione attuale permanesse e quella fosse l’unica soluzione possibile.

L’ampio discorso sul controllo di produttività, la progressione in carriera e la responsabilità disciplinare, affronta in realtà temi già al centro di ampie riforme, anche non lontane nel tempo. Il nuovo ordinamento giudiziario, che prevede la valutazione quadriennale, è a regime da dieci anni. Anche su questo mi permetto riaffermare una convinzione: in alcuni casi occorre cambiare le norme e c’è bisogno di buone leggi; in altri, e sono la maggior parte, bisogna applicare bene, con rigore, quelle esistenti. Tranne casi rari (magistrati incappati in disavventure disciplinari), tutte le valutazioni promuovono i magistrati a pieni voti, sulla base di relazioni elogiative (autorelazioni, di nome o di fatto) che hanno da tempo esaurito gli aggettivi della lingua italiana.

Condivisibile il divieto delle “porte girevoli”, ma chi pensa che la contiguità fra politica e giustizia sia dovuta a questo, sbaglia di grosso. Dimentica per esempio Cesare Terranova, magistrato siciliano, poi deputato, ucciso dalla mafia meno di un mese dopo il rientro in servizio; e sottovaluta il fatto che il passaggio parlamentare è prevalentemente un punto di arrivo (senza rientro in ruolo), che manifesta una contiguità ideale e politica maturata proprio negli anni di servizio. Il più delle volte senza interferenze con l’attività giudiziaria ma, a mio avviso, sempre inopportuna. 

Anche qui: applicare le regole, prima ancora che cambiare le leggi. In attesa di una legge ad hoc, sussiste per i magistrati il divieto di iscrizione ai partiti politici, previsto dalla Costituzione come possibilità per alcune categorie di pubblici funzionari, e attuato con legge ordinaria. Ebbene, nel 2009 la Corte costituzionale chiarì che si applicava anche al magistrato fuori ruolo (di destra, nel caso specifico; mentre uno di sinistra era dirigente di partito e sindaco di un capoluogo). Non è successo nulla, benché nel 2018 la Corte abbia confermato la legittimità del divieto e della incompatibilità, proprio in relazione al secondo magistrato, che nel frattempo si era candidato alla segreteria nazionale del partito ed era poi divenuto, ed è tuttora, presidente di quella stessa regione.

Lo scorso anno si è formalmente dimesso da incarichi di partito, appena in tempo per ricevere solo un ammonimento dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che, proprio per guadagnar tempo, aveva sollevato per la seconda volta una sostanzialmente identica (e infondata) questione di legittimità costituzionale. Fermiamo pure le porte girevoli, ma prima e soprattutto chiudiamo bene le “porte di servizio” (nonché la promiscuità, senza neppure dover andare fuori ruolo, con gli incarichi nella giustizia tributaria e nella giustizia sportiva: in buona parte all’origine del devastante “mondo di mezzo” che stiamo scoprendo dalle trascrizioni, più o meno legittime).

Il tirocinio formativo obbligatorio presso Procure e Tribunali, come condizione per l’accesso all’esame di magistratura, può essere una buona idea (e già oggi, in numero di posti limitati, viene svolto da aspiranti avvocati, in sostituzione di un semestre di tirocinio). Ma al concorso per uditore giudiziario si iscrivono in genere 7mila aspiranti magistrati: molti di più chiederebbero il tirocinio, in pratica in numero pari all’organico. Con accesso ad atti riservati o comunque delicati, formalmente tutelati da vari obblighi di riserbo, ma senza alcun dovere di presentarsi davvero all’esame. Già oggi i vincitori di concorso svolgono un anno di tirocinio con valutazione negli uffici giudiziari. Il tirocinio preliminare può essere utile, ma è anche gestibile? E non presenta forse più rischi che pregi?

Sui criteri di priorità dell’azione penale obbligatoria stabiliti per legge, basti dire (oltre alla necessaria modifica costituzionale) che una cosa è stabilire, anno per anno (quindi modificabile), un indirizzo di politica giudiziaria da parte del Parlamento o del Csm, altro è stabilirlo per legge e così, per “differenza”, indicare quali siano i reati di fatto amnistiati e che possono essere “liberamente” compiuti da domani.

Il dibattito sulla “doppia dirigenza” è almeno trentennale, e in molti grandi uffici giudiziari il primo dirigente di cancelleria svolge funzioni importanti: un riscontro esterno, ad esempio, è dato da molte circolari organizzative firmate da lui o insieme al capo dell’ufficio. La trasmissione degli atti a mezzo Pec è un processo in atto (e generalizzato nel civile) va semmai accelerato, con atti amministrativi di governo e, giustamente, varato definitivamente nel penale (e in Cassazione, anche civile).

La fissazione, rigorosa e sanzionata, della durata delle diverse fasi processuali è già in parte prevista per legge. Scriverla in modo più dettagliato non è detto che consegua il risultato. Tanto più se la sanzione, come prevede la proposta della Lega, scatti (soltanto) nei casi di dolo e colpa grave. Ci mancherebbe altro! E non dovrebbe forse essere già così? È stata giustamente criticata la legge che abolisce la prescrizione, e fissa i tempi massimi di durata dei tre gradi di giudizio, pensando così di aver risolto il problema.

Giuste le critiche alla sostanziale inutilità dell’udienza preliminare. Ma si dovrebbe forse potenziare la sua funzione di filtro per deflazionare il dibattimento e incentivare i riti alternativi. Bypassarla con la citazione diretta a giudizio, scoraggiando anche il ricorso al giudizio abbreviato, significherebbe appesantire ulteriormente il rito ordinario e quindi la durata dei processi. È vero, certi sconti di pena “a tavolino” sono irritanti e appaiono ingiusti. Ma quando evochiamo (il più delle volte a sproposito) la giustizia americana e il rito accusatorio, non possiamo ammirare solo alcuni profili di efficacia ed efficienza, dimenticando (oltre alla approssimazione di molti giudizi) i rigorosi doveri processuali che incombono anche sugli avvocati (si pensi solo all’oltraggio alla Corte), il loro impegno nelle indagini difensive e nella ricerca delle prove; l’ampia facoltà delle parti di concordare il patteggiamento (con sconto ingente della pena anche per i reati più odiosi). 

L’eccezionalità delle misure cautelari è già scritta nel codice, perfino prima della riforma del 1989. Gli avvocati non si stanchino di pretenderla e di contestare gli eccessi e gli abusi.

*Portavoce del ministro della Giustizia, Flick (governo Prodi I, 1996-98), portavoce della Corte Costituzionale (presidente Ruperto, 2001-2003), capoufficio stampa del Consiglio nazionale forense (presidente Danovi, 2003-2004) e dell’Associazione nazionale magistrati (2009, giunta Palamara-Cascini). Al Sole-24 Ore (dal 1985 al 1996, responsabile del settore Giustizia; poi inviato nel 1999); fondatore e direttore di Diritto&Giustizia quotidiano on line edito da Giuffrè (2000-2001); caporedattore di Finanza&Mercati (2005-2007 e poi 2010-2012); infine ufficio stampa dell’Ordine degli avvocati di Milano (presidente Danovi, 2016-2019).

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