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Politica
Luca Palamara condannato come fosse solo lui il cancro della magistratura

Di Gianni Pardo

Essere tolleranti con gli amici non è una grande virtù. È nei confronti dei nemici che bisogna esercitarla. Nello stesso modo l’imparzialità e l’amore della giustizia sono facili, se coloro che amiamo hanno ragione. Ché anzi, in questo caso, dobbiamo trattenerci dal favorirli eccessivamente. Mentre quando si tratta degli avversari, abbiamo tendenza a non perdonare nulla. Ai Borboni di Napoli, che hanno avuto il torto di perdere, si attribuisce un detto che vale ancora oggi: “Per gli amici tutto, per i nemici la legge”.

Ieri Luca Palamara è stato espulso dalla magistratura. È la massima sanzione che poteva essergli inflitta. E questo mi pone dinanzi ad un caso classico. Da quando lo conosco, cioè da prima ancora che Francesco Cossiga gli dicesse in televisione che il suo era un nome da tonno, e che lui stesso aveva la faccia da tonno, ho avuto quell’uomo in antipatia. Visceralmente. Magistrato – e già questa non è una raccomandazione – è stato da sempre un uomo di potere. Fino ad arrivare al vertice dell’Associazione Nazionale Magistrati. In un mondo in cui il primo sbarbatello che ha appena vinto il concorso ha un potere da satrapo, ciò significa che Palamara ha avuto un potere pressoché sconfinato. 

In particolare, dovevano rendergli omaggio e prestargli obbedienza tutti coloro che volevano fare carriera. Certo, non per quanto riguarda i soldi. Non soltanto tutti i magistrati sono ben pagati, ma dal punto di vista della retribuzione progrediscono per anzianità e con questo unico merito scalano tutti i livelli di stipendio. Ma questo non soddisfa la vanità. Se vuoi essere Procuratore Capo, Presidente di Corte d’Assise, e – Dio mi perdoni – Presidente di Sezione della Cassazione, devi avere santi in Paradiso. E santi di prima categoria. Diversamente rimarrai un semplice manovale della giustizia. Uno che regnerà su un pugno di cancellieri e avvocati, ma nulla di più. Il sistema è istituzionalizzato. La testa alta e l’indipendenza si pagano con l’oscurità. Quand’anche come giurista uno possa meritare fama nazionale, in magistratura si fa carriera per via di raccomandazioni e appartenendo alle cosche politiche di successo. Diversamente tutte le porte sono chiuse.

Poi è avvenuto che, per via di intercettazioni (chi di spada ferisce di spada perisce) il sistema è stato scoperchiato e tutti si sono stracciati le vesti. Quando dico “tutti” intendo gli ipocriti ma, visto il loro numero, sono costretto a scrivere “tutti”. Infatti per anni, anzi per decenni e forse da sempre, nessuno ha ignorato le banalità che ho appena scritto. Quella realtà è stata nota a tutti i magistrati, a tutti i giornalisti e a chiunque si sia mai posto la domanda: “Se tutti, ad una certa età, sono consiglieri di Cassazione, come vengono scelti i Presidenti di Sezione?” La domanda rimane ovviamente senza risposta, semplicemente perché la risposta è indecente.

Di questo sistema Palamara è stato il portabandiera. Dunque lo si poteva accusare - se non proprio di corruzione, come si è fatto – di lobbysmo, di sensibilità alle raccomandazioni, d’influenza della politica e delle correnti negli incarichi prestigiosi. Ma espellerlo come se il cancro fosse lui, come se, eliminato lui, il corpaccione della magistratura fosse guarito, è un’assurdità. Mi chiedo se coloro che lo hanno espulso non abbiano ottenuto il potere di espellerlo con gli stessi sistemi che oggi gli imputano come reato. 

E poi, Palamara agiva forse da solo? Se negoziava, non negoziava certo con sé stesso. E come mai nessuno, oltre lui, viene inquietato? Nei suoi panni, emigrerei e comincerei a scrivere libri e concedere interviste, chiamando in correità anche coloro che mi hanno semplicemente fatto una telefonata. Forse non potrei provare molto, dal momento che prima non ero intercettato (ecco il criterio dell’innocenza, in Italia) ma certo metterei tonnellate di merda nel ventilatore. Con qualche notevole effetto, se ha ragione il famoso detto francese per cui: “Calomniez, calomniez, il en restera toujours quelque chose”. 

Palamara non è innocente e rimane supremamente antipatico. Ma non sono innocenti neanche gli altri. Operano costantemente sotto la scritta: “La legge è uguale per tutti”, e la dimenticano quando si tratta di loro stessi. Sono fermi alla mentalità biblica per cui tutti i peccati della comunità possono essere caricati sul groppone di un capro, per mandarlo a morire nel deserto. 

La giustizia vorrebbe che, insieme con Palamara, fossero condannati tutti coloro che non sono rimasti al primo gradino della carriera. Oppure, più correttamente, che non fosse condannato nessuno, neppure Palamara, esattamente come nella Grecia classica nessuno era condannato per omosessualità, semplicemente perché la pratica era comune ed accettata.

Questa vicenda mi fa pensare ad una pochade scollacciata che si svolge in un bordello, dove tutte si vendono ma solo una è chiamata puttana.

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