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Aldo Moro centenario dalla nascita - Il discorso di Giuseppe De Tomaso

L’intervento in Consiglio regionale del direttore de "La Gazzetta del Mezzogiorno", Giuseppe De Tomaso, nel corso della seduta di commemorazione della figura di Aldo Moro nel centenario della nascita.
“Moro, la Puglia e il Mezzogiorno”

Per me è motivo di onore essere qui oggi per ricordare Aldo Moro che anche per la testata che rappresento, vale a dire La Gazzetta del Mezzogiorno, è stato decisivo in molte occasioni, in molte date che ne hanno contrassegnato la storia.

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Se la Gazzetta del Mezzogiorno si accinge a festeggiare ormai, i centotrent’anni di vita, credo che un     riconoscimento vada assolutamente attribuito ad Aldo Moro, per la semplice ragione che diceva che era importante per lui opporsi alla colonizzazione dell’informazione, quando sembrava che gran parte dell’informazione del Sud dovesse essere prelevata, asservita agli interessi e agli obiettivi del Nord e lui riuscì a dare una risposta di quel tipo, molto autonoma, molto dignitosa, orgogliosa di un Sud che è in grado di reagire, anche sul piano dell’informazione, di poter competere con il resto del Paese. Per me è difficile prendere la parola dopo l’intervento del professor Beppe Vacca, che ha illustrato la figura di Moro in maniera perfetta. Qualunque mio contributo potrebbe essere peggiorativo, non migliorativo. Però grazie a lui e grazie anche all’intervento di apertura del Presidente Loizzo, è stata ricordata l’importanza e il ruolo che ha avuto Aldo Moro nella difesa dell’autonomia nazionale.

Parlerò in particolare del Sud e della Puglia. Prima che potesse partire il centrosinistra Moro incontra grandi difficoltà. Ci sono tre cardinali, in modo particolare, che gli rendono la vita difficile: Ottaviani, Tardini, Siri. Il capofila era Giuseppe Siri, leader dei conservatori della Curia conservatrice. Moro viene quasi minacciato, in termini non dico fisici, ma in maniera molto pesante da Siri, che gli manda lettere pesanti, degli ultimatum. Alla fine Moro decide di scrivere al Papa, e ottiene, da una risposta non ostile di Giovanni XXIII, una sorta di avallo alla definizione di quella stagione politica che stava per cominciare. Contemporaneamente, però, siccome Moro aveva una personalità che già si era messa in luce a livello internazionale, ebbe una telefonata dal neo Cancelliere tedesco Ludwig Erhard. Ludwig Erhard, è stato un economista tra gli artefici del miracolo economico tedesco, perché lui è stato il teorico dell’economia sociale di mercato, più di Adenauer, molto amato da Luigi Einaudi. Chiamò Moro, al quale fece una proposta: a fronte della rinuncia del centrosinistra, lui avrebbe lanciato per il Sud un grande programma di industrializzazione. Quindi, a lui, uomo del Sud, fece la proposta di rinunciare a questo programma che per i tedeschi diventava un programma molto complicato: “Ci troviamo in una condizione di guerra fredda, molto pericolosa per la pace dell’Europa e del mondo intera, quindi questa è la mia proposta”. Moro gli risponde in maniera secca: “Caro cancelliere, non abbiamo ancora rinunciato a essere italiani. Quindi, anche se tu fai queste promesse mirabolanti di compensazione per una prospettiva che tu ritieni essere negativa per te e per il mio Paese, la mia risposta è no”. 

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In questa risposta, secondo me, c’è la chiave, la cifra di Aldo Moro.

Aldo Moro ha di sé un’immagine – è stato ricordato anche prima – di un eterno mediatore, un eterno anestesista. Montanelli lo ha canzonato più volte ma credo che questi giudizi siano stati molto ingiusti, direi quasi opposti, perché tutta la sua vicenda, compresa quella finale, non si può leggere se non nella dimensione del suo intervento costante in difesa dell’autonomia e dei valori nazionali.

Diciamo la verità, perché Moro alla fine viene lasciato solo? Alberto Moravia scrisse in quei giorni, poco dopo, “doveva morire”. Elias Canetti, poi citato da Sciascia, disse: “Qualcuno doveva morire al momento giusto”. Stava a significare che non era difeso da nessuno, era una frase che intendeva dire questo. Perché non poteva essere difeso da nessuno? Perché Moro, in una prospettiva bipolare ancora molto accesa, molto tesa tra le due super potenze pensava di poter fare – e lo ha fatto per tanto tempo – una sua politica estera.

Se il Paese tuttora viene rispettato nel resto del mondo, bisogna dare atto che la linea guida fu data da Aldo Moro. Credo che sotto questo aspetto la sua lezione sia assolutamente imprescindibile per chiunque voglia avvicinarsi al potere mettendo l’interesse generale davanti al Paese, davanti all’interesse particolare.

Si dibatte spesso, ma il vero Moro qual era? Io ricordo un libro molto bello, uscito a metà degli anni Settanta, “Intervista sul capitalismo italiano” di Eugenio Scalfari con Guido Carli. Loro a un certo punto dedicano un capitolo proprio alla descrizione di Moro e all’esegesi del pensiero moroteo. È un rivoluzionario? No. È un riformista? No. Alla fine, si mettono d’accordo che Moro è un conservatore illuminato oppure un riformista moderato. Sono sottigliezze semantiche, così nominalistiche, che in quel tempo andavano di moda, che però per certi versi credo che un po’ lo rappresentino al meglio. Credo che Moro possa essere definito così. Perché? Intanto penso che Moro, più che essere giudicato, esaminato, spiegato, interpretato dai suoi atti vada letto in base a quello che lui ha scritto, in particolare le sue lezioni di Filosofia del diritto. Credo che per comprendere Moro, più che leggere i suoi discorsi congressuali, si debba andare a quello che lui ha scritto in quegli anni, tra l’altro anni giovanili. Spesso capita di leggere che Moro non è stato un democristiano, un popolare immediato, cioè ha un passato un po’ destrorso, un po’ badogliano lo ha definito qualcuno.

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Norberto Bobbio, di fronte a queste osservazioni, ha fatto notare che contemporaneamente a queste presunte debolezze morotee nei confronti di una prospettiva di restaurazione del Paese, perché di questo stiamo parlando, o una restaurazione nostalgica del ventennio o invece una evoluzione repubblicana e democratica come si andava prospettando, di fronte a questa osservazione Bobbio ha fatto notare che nelle sue lezioni si capisce che Moro, ben prima che fosse crollata la dittatura, aveva idea di quella che era la sua prospettiva politica e aveva un obiettivo e soprattutto un pensiero politico coerente, ben circostanziato su ogni argomento.

Ci sono delle espressioni nelle sue lezioni di Filosofia del diritto che sono illuminanti. Una riguarda la proprietà. Che cos’è la proprietà? Moro definisce la proprietà uno strumento di lavoro sociale, che può sembrare una definizione un po’ astratta e un po’ artificiosa. Poi la spiega. La proprietà, per lui, è fondamentale perché non deve servire solo a garantire gli interessi del proprietario, ma deve servire soprattutto a garantire gli interessi di colui che il proprietario, che riesce a creare impresa, che riesce a produrre lavoro, mette a disposizione dei suoi collaboratori, dei suoi dipendenti.

Moro è un giurista. I giuristi hanno dei peccati in Italia, perché i giuristi sono portati a propendere per il cosiddetto “positivismo giuridico”: esiste un problema, dobbiamo per forza trovare una soluzione, una legge pronta. Come diceva Falcone: “Il Paese delle carte a posto. C’è un problema? Dobbiamo intervenire, così ci mettiamo la coscienza in pace. Intanto si approvano leggi su leggi e il Paese soffre di ipertrofie legislative e amministrative a tutti i livelli. Questo, anziché accelerare il processo decisionale, di fatto, lo blocca e rende il Paese sempre più difficile da governare e da amministrare.

Moro, pur essendo un giurista, quindi potenzialmente portato a incorrere nel peccato del positivismo giuridico e del formalismo esasperato, invece, si definisce un tifoso del diritto naturale. Anzi, dice che il diritto naturale è esso stesso diritto positivo. L’eccesso di formalismo giuridico − arriva a scrivere − costituisce una minaccia per la pace sociale. Sono affermazioni molto pesanti per coloro che, penso, hanno di Moro un’immagine un po’ diversa, però sicuramente sono dirompenti, perché richiamano anche quelli che ritengono − credo che Moro fosse tra questi − che non può mai esistere un pianificatore intelligente, un pianificatore onnisciente. Perché dovrebbe saperne più degli altri? Perché la conoscenza è dispersa. La conoscenza tra gli uomini è frammentata. Non è mai riconducibile a unità. Per chi ci crede, può essere la conoscenza ricondotta al Signore, ma per coloro che non credono − ma anche per coloro che credono e che hanno un atteggiamento di laicità nei confronti di questi problemi − penso che sia indubitabile il fatto che la conoscenza è una condizione di frammentarietà, mai di assoluta unicità.

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È questo l’insegnamento che Moro propone e approfondisce nelle sue lezioni. È stato citato anche prima il suo intervento per il trentesimo anniversario della fine della guerra, quindi della Resistenza, della Liberazione. Moro − credo proprio in quest’Aula − parla di sentimenti anti-produttivistici che hanno nuociuto al Paese. Non è pensabile che ci possa essere − lui dice − sviluppo attaccando l’impresa, senza mettere in chiaro che le regole della società industriale non possono essere violentate, non possono essere disattese, non possono essere dimenticate. Quindi, è un Moro che definisce lo stato necessariamente liberale, perché deve essere sociale, e necessariamente sociale, perché deve essere liberale.

Io ho solo citato. Non ho fatto commenti. Tutte quelle che ho detto sono frasi che voi potete ritrovare nelle sue lezioni di filosofia del diritto, che ci danno, credo, il Moro migliore.

Come ha ricordato il professor Vacca, la responsabilità politica di Moro è stata quella di ritenere che nessuna forza politica potesse essere, da sola, espressione degli interessi del Paese e del comune sentire del Paese, proprio per la particolarità della situazione italiana. Credo che questo aspetto, molto particolare, che di fatto segna tutta la sua vicenda, si possa collegare anche alla vicenda del Mezzogiorno. Moro si trova in una determinata condizione. Intanto, credo sia stato l’unico a poter dire di aver trasformato il suo meridionalismo in azione concreta, contrariamente a quelli che ritengono che fosse un inoperoso, un pigro, un disattento, era invece molto, molto attivo, si interessava di tutto. Quando veniva in Puglia conosceva qualunque problema. Si interessava in modo diretto ed era assolutamente il più informato, ma forse anche colui che più spingeva perché alcuni progetti, alcune decisioni potessero andare avanti.

Moro si trovava in una fase in cui sull’intervento straordinario c’erano due scuole di pensiero. Quella più liberale, a cui Moro per certi versi era più attento, era quella sturziana, perché Sturzo è colui che ha scritto pagine, un po’ come Einaudi, molte prediche contro l’eccessivo interventismo dello Stato nella vita economica. Ecco, Sturzo, quando venne approvata la Cassa per il Mezzogiorno, che – bisogna dare atto a De Gasperi – De Gasperi volle che fosse chiamata Cassa per il Mezzogiorno, non istituto, ente o qualunque altra cosa, perché voleva che i meridionali avessero contezza, avessero la dimostrazione anche dal punto di vista terminologico e semantico che lo Stato per la prima volta non li prendeva in giro. Come diceva Moro, i meridionali pensano che lo Stato sia dimentico e certe volte anche ostile nei loro confronti. Quindi, bisogna sempre vincere questo pregiudizio meridionale, che è un pregiudizio che ha accompagnato la nostra storia. Questo lo diceva credo proprio in quest’Aula nel 1975.

Ma sulla Cassa per il Mezzogiorno si accende il dibattito, ed Einaudi, che era nella fase finale della sua esistenza, nei confronti dell’intervento pubblico aveva un’idea piuttosto secca. Lui sosteneva che l’intervento pubblico avrebbe prodotto – lo posso dire? – un caso Ilva. Perché lui scrive che l’intervento pubblico, vale a dire l’industria pesante, si sarebbe alla fine riversato in un investimento sul petrolchimico e sul siderurgico che avrebbe devastato l’ambiente. Quindi, lui sosteneva che non avremmo ottenuto né lo sviluppo, né il rispetto dell’ambiente, né il lavoro.

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C’era invece chi, come Pasquale Saraceno, riteneva che l’investimento nel Mezzogiorno non potesse prescindere da una eterodirezione pubblica. Saraceno è stato una persona straordinaria, uno che si è impegnato, e forse noi dobbiamo riconoscere che i settentrionali sono stati i migliori amici dei meridionali, molto, molto di più degli stessi meridionali, perché Saraceno, Vanoni e De Gasperi erano tre settentrionali che hanno fatto per il Sud molto di più di molti meridionali. Così come dobbiamo riconoscere che due stranieri hanno fatto l’Italia, perché De Gasperi era austriaco e Cavour era francese e inglese di cultura. Probabilmente, quando abbiamo avuto degli italiani, dei figli del popolo, abbiamo prodotto disastri, rovine, guerre. Ma questa è una parentesi molto banale, che ritiro subito.

Sulla questione dell’intervento, Moro è molto attento, e credo che lui riconosca il valore dell’osservazione di Sturzo, quando diceva “possiamo fare la Cassa per il Mezzogiorno, però a condizione che ci siano dieci persone del consiglio di amministrazione non nominati dalla politica, queste dieci persone nel consiglio di amministrazione potranno trascorrere le loro giornate a pensare all’interesse del Mezzogiorno senza avere contatti con la politica”.

Bisogna riconoscere che la prima fase dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno è stata una fase non dico eroica, ma sicuramente una fase positiva, perché i primi vent’anni di Gabriele Pescatore, che è morto qualche settimana fa centenario, alla guida della Cassa per il Mezzogiorno sono stati anni che hanno prodotto una riduzione del divario. Cioè, non sono stati anni persi, né sono stati anni clientelari, perché esisteva una sorta di protocollo che faceva rispettare Pescatore, protocollo da cui non si poteva prescindere, che non si poteva assolutamente bypassare.

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Credo che, sotto questo aspetto, anche le osservazioni einaudiane un po’ fossero eccessivamente ideologiche in senso contrario. I fatti sono sempre duri, si incaricano di smentire quelle che sono un po’ le previsioni. E credo che Moro su questo sia stato fondamentale. Ho visto pochi giorni fa un libro “Il Sud deve morire” scritto da un collega che fa una sorta di tabella di tutte le occasioni mancate negli ultimi anni: può essere il potere centrale, ma può essere anche lo stesso potere locale, delle regioni meridionali. Ci sono problemi che una figura come Moro sicuramente avrebbe incanalato in maniera diversa, senza contrapposizioni fra Stato e Regioni. Moro, che sulle Regioni ha scritto parole molto importanti, era attentissimo al fatto che non ci potesse essere una rottura dell’unità nazionale.

Quando nel ’64 i socialisti premono perché l’istituzione delle Regioni diventasse la prima priorità, Moro dice: “andiamoci un po’ piano”. Quando Enzo Biagi gli chiede: “perché, Presidente, vieni accusato di essere un po’ lento nelle decisioni” Moro dice: “non è che sono lento, è che cerco di evitare guai maggiori”. Quindi, si rende conto che non è vero che le riforme solo perché si chiamano riforme, siano sempre ben accette e siano sempre felici. Le riforme, come sosteneva uno che allora gli era nemico, ma poi diventò suo amico, come Ugo La Malfa, spesso diventano controriforme. Tra l’altro, credo che non sia giusto parlare di pessimismo, dovremmo parlare di realismo di un politico ben informato su quella che era l’esatta condizione, situazione del suo popolo.

Chiudo con una testimonianza personale. Ho iniziato prima, ricordando il rapporto di Moro con La Gazzetta del Mezzogiorno. Quando ci è capitato di riportare l’iniziativa, qui c’è l’ingegner Ferlicchia, uno degli artefici, tesa ad attivare il processo di beatificazione di Moro, il giorno dopo, la Gazzetta del Mezzogiorno ha ricevuto telefonate dal New York Times, da Le Monde, dai giornali tedeschi, da El Paìs, tutti i giornali più importanti del mondo hanno telefonato per sapere di questa iniziativa, perché il sacrificio di Moro viene percepito all’estero come il sacrificio di Kennedy.

Tuttora, negli Stati Uniti, esiste un prima e un dopo Dallas ‘63, come in Italia esiste un prima e un dopo Moro. Credo che sia difficile dimenticare questo aspetto. Noi, per il contatto continuo con la quotidianità, siamo un po’ portati a sottovalutare, a sminuire questi aspetti mediatici importanti, però questo è quello che è successo. La fine di Moro, anche all’estero, resta ancora un buco nero che va assolutamente chiarito. Non voglio dilungarmi ancora. Credo che questa sia una ferita della quale, soprattutto i pugliesi, ancora non vedono nessuna possibilità di ricomposizione.

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