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Bari – La chiusura definitiva dei centri di identificazione ed espulsione, permessi di soggiorno temporanei non più di sei mesi ma almeno un anno, l'abolizione della Bossi-Fini e migliori condizioni di vita nei centri di accoglienza richiedenti asilo: queste le richieste dei più di 400 migranti che hanno manifestato in corteo da Piazza Umberto a Corso Vittorio Emanuele.

Una città in pieno fermento quella che ha accolto la manifestazione, diversi gli sguardi incuriositi. Un signore anziano, probabilmente barese, avvicinatosi con il suo motorino ad una delle locandine della manifestazione, ha chiesto preoccupato ad uno dei tanti ragazzi italiani che hanno organizzato la giornata di protesta: “Manifestazione antirazzista di cosa?”. Al tentativo di spiegazioni del giovane, l’uomo ha risposto secco: “Dobbiamo rimandarli tutti a casa. Iniziamo a pensare ai nostri di cittadini”. Purtroppo, va detto, anche questa è la realtà: spesso si dimenticano i volti, troppo spesso nell’altro (soprattutto se straniero) si vede il nemico. L’attualità ci racconta sempre più della cosiddetta “guerra tra poveri”.

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TESTIMONIANZE/ Alcuni migranti raccontano ad Affari la vita nei Cara

Spiegano alcuni migranti: “Noi richiedenti asilo del campo di Bari-Palese viviamo una situazione di estremo disagio, a molti di noi viene rifiutato il riconoscimento della protezione umanitaria o dell’asilo politico”. I problemi sono sempre gli stessi: le procedure degne del peggior Azzeccagarbugli per presentare le domande, i tempi ristretti per presentare i ricorsi in caso di diniego, la necessità di fornire un indirizzo di residenza (quando molti di questi ragazzi non hanno i soldi per permettersi un’abitazione). Le richieste sono state presentate anche in Prefettura ed un primo segnale di apertura pare esservi stato: ad alcuni rappresentanti delle associazioni che hanno organizzato il corteo, infatti, sarà permesso l’ingresso in settimana nel campo di Bari-Palese. “Bisogna lavorare in fretta. Noi comunque non ci fermeremo”, hanno sottolineato alcuni dei membri di Atenei in Rivolta, Rumore Collettivo, Rivolta il debito, Collettivo Guevara.

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Uno dei migranti, originario del Pakistan, ci ha raccontato: “La situazione nei centri si è fatta complessa non per tensioni tra di noi, bensì perché siamo al culmine. Io la notte non riesco più a dormire, ho costantemente bisogno di ansiolitici. E’ una situazione che ti divora dentro”. Eppure c’è spazio per pensare al futuro, come ci ha confessato il giovane migrante: “Il mio sogno sarebbe insegnare le lingue o fare l’interprete, ho studiato per questo. Sarei disposto a fare tutto, però: il cameriere, il commesso, lavorare in pizzeria, qualsiasi cosa”. Un viaggio difficile quello che lo ha portato qui in Italia assieme a due amici, gli stessi amici che gli sono stati accanto durante tutto il tempo della nostra intervista. Loro non parlano bene inglese, ma ci hanno ascoltati ugualmente: “Alcuni nostri amici, amici d’infanzia, sono stai uccisi durante il viaggio, appena arrivati in Grecia, da alcuni esponenti di Alba dorata. Davanti ai nostri occhi”.

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APPROFONDIMENTO/ Cos’è lo ius soli?

Abbiamo incontrato anche il Presidente della Comunità Bangladesh e Presidente della Consulta degli Immigrati di Bari, Amin Mohammad Ruhul: “Bisogna tornare ad essere umani. Le condizioni nella quali vivono le persone nei centri non lo sono. E bisogna darsi da fare, per spezzare la catena di schiavitù che lega i migranti al lavoro: molti di noi non vengono pagati, perché con noi i datori sanno di poter fare voce grossa. I sindacati poi, purtroppo, danno molte cose per scontate e non ci aiutano”. “Noi vogliamo – ha concluso Amin - solo poter lavorare legalmente, non chiediamo altro. E senza permesso questo è impossibile. Sappiamo che la situazione è di crisi, non vogliamo rubare il mestiere a nessuno. Abbiamo provato a chiedere di lavorare con qualche bancarella, in giro per la città, ma dal Comune non abbiamo avuto risposte. Siamo disposti a qualsiasi lavoro allora, anche il più “denigrante” o faticoso”.

 

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