
Giornata della Memoria, 2013
Non lontano dal mare, in via Amirin, vive da solo un certo signor Albert Danon. Adora le olive e i formaggi salati. E’ un uomo gentile, di mestiere ragioniere. Qualche tempo fa, era mattina, un cancro alle ovaie si è portato via sua moglie Nadia. Ma ne ha lasciato i vestiti, una toeletta, tovagliette finemente ricamate. L’unico loro figlio, Enrico David, è andato a salire la china del Tibet”.
Così comincia il romanzo poetico “OTO HA-YAM” Lo stesso mare dello scrittore israeliano Amos Oz uscito nel 1999 e messo in musica dal compositore Fabio Vacchi, per il Teatro Petruzzelli nell’aprile 2011 verso la fine della mia non breve Sovrintendenza nel Teatro barese.
Una nuova commissione della giovane Fondazione, un progetto complesso ed articolato, durato fra studio, decisione, composizione e realizzazione tre anni precisi.
Amos Oz è uno dei più grandi scrittori viventi oggi. Il suo occhio e il suo narrare hanno percorso tantissimi anni della storia d’Israele, dalla sua costituzione al termine della guerra del 48, quando Oz era ancora bambino, fino ai nostri giorni.
Il suo bellissimo e monumentale “Una Storia d’amore e di Tenebra” è proprio il racconto della sua infanzia, della guerra, dell’educazione alla vita scandita anche da tragedie familiari. Sono pagine indimenticabili di grande forza letteraria.
Non cito a caso il termine “Forza”. Oz non è il vero cognome dello scrittore che si chiama Amos Klausner. Oz, il cognome scelto da Amos significa proprio Forza.

Forza di capire e di affrontare il peso della Storia, il peso del suicidio della Mamma Fania, il peso della separazione dal Padre politicamente schierato a destra, per entrare in un Kibbutz ed iscriversi al Partito Laburista, il peso, soprattutto, di scrivere e di affrontare per mestiere la “percezione e la narrazione” di ogni cosa.
Ancora una frase da Lo Stesso mare:
“Nadia Danon:poco prima di morire un usignolo su di un ramo l’aveva svegliata.Erano le quattro di mattina,prima ancora che fosse luce. Narimi Narimi diceva l’usignolo”.
L’universo di Oz è territorialmente circoscritto in uno spazio fisico che va dal deserto al margine del quale lo scrittore vive, a Gerusalemme fino al mare di Tel Aviv.
In questi pochi chilometri si intersecano e si svolgono le vicende dei suoi personaggi, d’ogni estrazione sociale e d’ogni età. Tutti alle prese con il sentire imperioso di dare un senso alla propria vita di fronte alle parole dette e non dette, alle cose fatte, da fare o non più realizzabili.
L’oscuro ragioniere Danon di fronte al mistero dei sentimenti che lo spingono, in un certo modo, verso la fidanzata del figlio lontano, venuta a vivere da lui per mancanza di casa, sceglie di imparare a percepire l’amore come un’azione collettiva, senza egoismi o gelosie, tutta giocata sui sentimenti e sulla reciproca tolleranza affettiva.
La mia esperienza con Amos Oz e i giorni passati con lui a Bari durante la fase finale delle prove dello spettacolo, sono stati forse il momento più bello del mio percorso teatrale in venticinque anni di vita.
Quest’uomo, dagli occhi chiarissimi e luccicanti e dal sorriso ironico, continuava a definire il suo romanzo come un’”orgia sentimentale” dove tutti si amano a prescindere dalle proprie particolarità ed egoismi.

Oz, più volte candidato al premio Nobel per la letteratura, e convinto assertore della necessità che ebrei e palestinesi vivano in pace in due Stati, è un grandissimo scrittore perché ha saputo trovare la “forza” simbolica” nelle sue per mostrare come l’esperienza di un ebreo, vissuto attraverso tutte le guerre dello stato d’Israele, sia una parte della Condizione Umana dell’uomo Novecentesco contemporaneo.
Nella giornata della memoria della Shoah mando un affettuoso pensiero a questo grande artista e uomo di lettere.
Purtroppo anche questa giornata che avrebbe dovuto essere vissuta nel ricordo composto degli ebrei di tutta Europa vittime della Germania nazista non ha potuto sottrarsi a volgarità, menzogne e cadute di gusto da parte di qualcuno impegnato nella campagna elettorale.
E allora in onore di chi ha pagato in quel terribile modo il frutto avvelenato del Novecento nazista e fascista concludo con l’ultima bellissima frase de Lo Stessso Mare:
Ora levati, va in cerca, lieve e silenzioso alzati va cerca quel ch’è perduto.