Padre Puglisi, il parrìno che sconfisse la mafia
di Antonino D'Anna
Se ognuno fa qualcosa, allora tutti possono migliorare questo mondo. La beatificazione di padre Pino Puglisi detto 3P come era chiamato dai suoi ragazzi a Brancaccio, nei primi anni '90 quartiere difficile di Palermo, premia oggi un uomo che è stato ucciso non solo per la sua testimonianza antimafia ma anche in odio alla fede cattolica. Ed è singolare la vicenda del nuovo Beato, un “parrìno”, un prete come si dice in Sicilia, ucciso dalla mafia perché con la sua azione nel quartiere si stava rivelando pericoloso per Cosa Nostra. Stava infatti togliendo l'acqua ai pesci. Ucciso, per giunta, "in odio alla fede" (e dunque martire). Quella fede che i mafiosi dicono di rigorosamente e cattolicamente, si capisce, professare.
In effetti, tra mafia e Chiesa cattolica c'è sempre stato un tentativo – da parte di Cosa Nostra – di avvicinamento: preclari mafiosi si sono sempre distinti nei primi posti delle chiese e uno di loro, Michele Greco, era detto “Il Papa” sia per la possibilità di mediare tra le varie famiglie palermitante e i Corleonesi emergenti all'inizio degli anni '80 (poi si schierò dalla parte di Totò Riina e soci nel corso della seconda guerra di mafia di quel decennio), che per la devozione. Fino all'esempio più lampante: quello di Bernardo Provenzano che, nei suoi pizzini spesso e volentieri usa questa formula di chiusura: “Vi benedica il Signore e vi protegga!”. Non mancano poi le invocazioni, nella sua famosa Bibbia sequestratagli dagli inquirenti, affinché il Signore guidi don Bino e i suoi picciotti a fare i migliori affari. I migliori affari, ovviamente, per la mafia.
E non sono mancati “parrìni” importanti che nel corso degli anni hanno fatto finta di non sapere niente della mafia, di ritenerla “tema di conferenze” o invenzione dei giornali settentrionali per screditare la Sicilia come avventatamente ebbe modo di dire negli anni '50 il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo. Poi ebbe un certo ripensamento. Non sono mancati i preti “intelligenti”, come racconta Andrea Camilleri sulla base dei documenti in mano agli inquirenti in “Voi non sapete”, intelligente libro sui pizzini di Provenzano: intelligenti, cioè, i preti che assolvevano (o assolvono, chissà?) dal peccato di mafia che comporta la scomunica immediata ma che per qualche “parrìno” non sarebbe peccato così grave da scomunica.
La Chiesa, per fortuna, ha saputo reagire. Non c'è stato solo il dito ammonitore e le parole urlate di Giovanni Paolo II nel 1993 in quel di Agrigento, quando ammonì i mafiosi e li invitò alla conversione. Ci sono stati, ci sono, personaggi in gamba come Michele Pennisi, il vescovo antimafia di Piazza Armerina trasferito a Monreale. C'è un'altra vittima di mafia che può essere accostata a don Puglisi, il “giudice ragazzino” Rosario Livatino, insieme col parroco napoletano Don Peppe Diana ucciso dalla camorra nel 1994. O la gigantesca figura del cardinale Salvatore Pappalardo, l'uomo che ebbe modo di strigliare i politici ai funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982: “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”. E la sua Sagunto si chiamava Palermo. E in mezzo a queste figure, ecco questo prete non molto alto, con le orecchie a sventola e tanta voglia di chiedere ai propri ragazzi di fare qualcosa, assassinato nel 1993.
"Se ognuno fa qualcosa, allora si più fare molto", diceva 3P. Il suo assassino, per esempio, si è convertito e si è pentito, aiutando la magistratura. Anche lui ha fatto qualcosa. Aveva ragione don Puglisi.