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Il Sociale
Gariwo Onlus lancia “La contesa buona. Proposte per uno sport responsabile"
di Lorenzo Zacchetti
 
Tra le iniziative per il Giorno della Memoria, Gariwo Onlus ha lanciato la Carta dello Sport “La contesa buona. Proposte per uno sport responsabile", presentata a Roma in concomitanza con l’evento “Un calcio al razzismo” organizzato dall’UCEI

Gariwo si definisce "una onlus al servizio della memoria", in quanto il suo obiettivo è promuovere la conoscenza e l'interesse verso le figure e le storie dei Giusti, donne e uomini che si sono battuti e si battono in difesa della dignità. Opera dal 1999 ma nasce ufficialmente nel 2001 come Comitato foresta dei Giusti-Gariwo e nel 2009 diventa onlus. È presieduto da Gabriele Nissim. 

Nel 2012, accogliendo l'appello di Gariwo, il Parlamento europeo ha istituito la Giornata europea dei Giusti - 6 marzo. Nel 2017 l'Italia è stato il primo Paese a riconoscerla come solennità civile, istituendo la Giornata dei Giusti dell'Umanità.

Il testo della Carta dello Sport “La contesa buona. Proposte per uno sport responsabile":

Lo sport, come ogni attività umana, può contribuire al rafforzamento del nostro carattere, all’amicizia e al rispetto dell’altro.
L’agonismo che ci stimola a migliorare il nostro fisico e a rafforzare la nostra personalità presuppone sempre una relazione tra esseri umani.
Persino in uno sport solitario immaginiamo di gareggiare con altri, che così ci spronano a diventare migliori.
Per questa componente relazionale, fin dai tempi dell’antica Grecia, la competizione sportiva è un indice, nel bene e nel male, del livello di civiltà del genere umano.

Può essere usato dalle dittature per veicolare il messaggio razzista della superiorità di una razza o di una nazione e diventare uno strumento di propaganda ideologica per regimi totalitari; oppure può diventare l’espressione della ricchezza morale di una società democratica che esalta l’eguaglianza nella contesa sportiva e il cui fine è sempre l’esaltazione della prestazione individuale o collettiva in uno spirito di amicizia.
Come aveva intuito il poeta greco Esiodo, esiste sempre la possibilità di una contesa buona, che rafforza il carattere e la volontà dell’individuo ed educa al rispetto dell’avversario, e di una contesa cattiva, che esalta invece l’ego della superiorità e mira all’annientamento dell’altro.

Negli anni recenti l’esperienza più significativa di un agonismo buono ci viene dal Sudafrica, dove, dopo gli anni dell’apartheid, il presidente Nelson Mandela volle che la squadra nazionale di rugby diventasse il veicolo di una riconciliazione tra i bianchi ed i neri, simbolo dell’integrazione possibile nel suo Paese.
Invece la partita di calcio del 13 maggio 1990 allo stadio Maksimir tra la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa di Belgrado scatenò una guerriglia sanguinosa tra le rispettive tifoserie che anticipò la guerra civile nella ex Jugoslavia. In quello stadio non si tifava per lo sport, ma si vedeva nella contesa sportiva la lotta contro un nemico che doveva essere annientato. Quella partita, strumentalizzata dai nazionalisti, preparò così all’imminente guerra. Si odiavano i calciatori avversari per sostituire il pallone con le armi. Oggi in un tempo pericoloso dove riemergono l’odio e i nazionalismi, dove in nome di una religione si commettono massacri, dove negli stadi si insultano gli atleti neri, dove ad un atleta arabo si impedisce di gareggiare e stringere la mano ad un israeliano, è necessario rilanciare i valori della contesa buona e positiva nell’agonismo sportivo.
Come la storia ha insegnato, qualche volta lo sport può salvare il mondo, perché i comportamenti degli atleti, dei tifosi e anche dei giornalisti sportivi possono influenzare positivamente la vita democratica nelle nostre società.
Esercitare lo sport con uno spirito olimpico aiuta la pace, la convivenza e semina il bene tra gli esseri umani.
Ogni atleta dovrebbe essere consapevole che nella competizione è sempre la presenza dell'altro che lo spinge a migliorare, e per questo motivo dovrebbe agire con correttezza nei suoi confronti e rispettare la sua dignità. L’agonismo non divide gli uomini in una brutale lotta di annientamento, ma il confronto li unisce nel medesimo percorso nell’agorà sportiva. Grazie alla sua popolarità, ogni atleta diventa un esempio per la società; per questo, come auspicavano i filosofi greci, non deve farsi prendere dall’hybris, ricercare un potere sugli altri e usare mezzi illeciti. Un atleta a qualsiasi livello è veramente grande quando riconosce il suo limite ed è sempre disponibile a riconoscere il valore dei suoi avversari. Secondo i greci, lo sport insegna che non ci sarà mai il migliore in assoluto, perché nel ciclo continuo della vita ci saranno sempre atleti migliori che seguiranno. È questa la bellezza dell’agonismo sportivo, dove negli stadi, nelle piscine, nei campi di atletica gli sportivi competono tra di loro allo stesso modo in cui gli uomini responsabili si confrontano tra di loro nelle istituzioni. Il dialogo e l’agonismo hanno un punto in comune perché la ricerca continua della verità, come quella della prestazione sportiva, non si esaurisce mai e unisce gli uomini in un destino comune. Non è un caso che la parola agorà (il luogo dell’assemblea e della democrazia per i cittadini) e agon (agonismo) abbiano in greco la stessa radice.
A loro volta gli spettatori dovrebbero venire educati a tifare in modo positivo e mai contro gli avversari della propria squadra, perché l’attività sportiva è una relazione tra esseri umani dove non dovrebbero mai esistere dei nemici e dove i beniamini delle tifoserie non possono sempre risultare vincitori. Applaudire negli stadi la propria squadra e quella avversaria anche nella sconfitta, riconoscendo il limite umano degli atleti, è un indice della maturità sportiva.
L’applauso e il riconoscimento più grande dovrebbero essere per quegli atleti che di fronte alle emergenze più grandi si sono assunti una responsabilità per la salvezza dell’umanità, come è accaduto a quei grandi calciatori che hanno salvato degli ebrei durante la Shoah, a quegli atleti che si sono battuti per difendere la dignità umana in Africa e in America Latina, o a quelle atlete che in Medio Oriente e in Asia non si sono piegate alla sottomissione della donna e alle imposizioni religiose.
Le loro storie non sono circoscritte solo agli stadi o all’ambito sportivo: i loro esempi hanno un significato etico fondamentale per l’agone sportivo.
Riconoscere il valore di questi uomini e raccontare le loro gesta agli sportivi offre dei parametri morali per comportarsi in un modo degno e onesto nella stessa competizione sportiva. Chi apprezza l’altruismo del grande ciclista Gino Bartali, che nascose nella canna della bicicletta centinaia di documenti falsi per salvare gli ebrei durante il fascismo; il sacrificio del maratoneta etiope Feyisa Lilesa, che arrivò al traguardo con le mani incrociate per denunciare la persecuzione degli oromo e così perse il suo posto in squadra e non poté più tornare nel suo Paese; il coraggio della nuotatrice siriana Yusra Mardini, che si erse a paladina dei profughi del suo Paese dilaniato dalla guerra; della mezzofondista algerina Hassiba Boulmerka, che lottò per correre senza il volto coperto, è più rispettoso degli avversari e rifiuta comportamenti razzisti e di discriminazione etnica, religiosa o di genere.
Lo sport non è un’isola a parte, come direbbe oggi Primo Levi, perché al suo interno si possono riprodurre i comportamenti migliori della società, oppure diventare un luogo dove si alimentano i germi peggiori.
Ecco perché è necessario raccogliere e divulgare le storie dei Giusti dello sport, per creare negli stadi e nei campi sportivi uno spirito di emulazione.

Con questo intento Gariwo propone l’allegato alla Carta della responsabilità 2017, sul tema dello sport. Immaginiamo che ognuno, che sia tifoso, atleta o giornalista sportivo, possa in prima persona far propri questi valori e comportamenti etici.


I tifosi
Lo sport è quella cosa meravigliosa che ci fa trepidare per la squadra del cuore, un atleta che abbiamo scelto come nostro beniamino, le prodezze di un avversario di cui riconosciamo la classe sopraffina. C'è grandezza nella vittoria come nella sconfitta. L'altro non è mai un nemico. Siamo tutti parte di un grande spettacolo, ciascuno con la propria identità, i propri valori, le proprie speranze. Dobbiamo abituarci a tifare in positivo, per la nostra squadra e i nostri atleti, e mai a tifare con cattiveria, contro gli avversari.
Insulti razzisti, slogan antisemiti, manifestazioni di odio di qualsiasi tipo non hanno niente a che fare con lo sport. Non ci dobbiamo mai stancare di ripeterlo.
Ci impegniamo con forza a reprimere questi comportamenti malati. Starne alla larga non è sufficiente. È fondamentale agire, intervenire in modo concreto affinché stadi e tifoserie siano completamente immuni dall'odio.
Ci impegniamo a essere da esempio per i nostri giovani. Ciò non significa che il nostro tifo non possa essere appassionato, goliardico, a volte un po' colorito. Ma esiste una soglia del rispetto della dignità altrui, e quella non deve essere mai superata. 
Sogniamo un terzo tempo in ogni disciplina, in cui, al termine della prova, tutti i protagonisti si vengano incontro per stringersi la mano.
Sogniamo stadi dove si va a tifare assieme alla famiglia in serenità. Questo perché lo sport è soprattutto una festa, un inno alla vita. E non c'è cosa più bella che celebrarla con chi ci è più caro.
Non dobbiamo permettere che ci siano gruppi organizzati che si attribuiscono l’esclusiva del tifo, si ergano a nostri rappresentanti e promuovano comportamenti che portano all’odio e al razzismo, minino la convivenza civile, creino divisione, e fomentino l’aggressività nelle persone. Dobbiamo sempre ricordare che da una partita di calcio tra Dinamo Zagabria e la Stella Rossa di Belgrado è nata la guerra civile e la pulizia etnica nell’ex Jugoslavia. Dobbiamo prendere esempio da Nelson Mandela, che vide nello sport in Sudafrica uno strumento formidabile per la conciliazione tra bianchi e neri. Anche noi quando andiamo allo stadio dobbiamo pensare che l’amicizia tra gli atleti e tra gli stessi tifosi è il messaggio più bello che possiamo dare al nostro Paese. Sembra difficile abbracciare o stringere la mano a un tifoso della squadra avversaria quando si perde, ma questo piccolo gesto rappresenta il grande valore umano dello sport che ci insegna a rispettare l’altro.


Gli atleti
Come atleti e sportivi ci ispiriamo ai principi enunciati nella Carta Olimpica, che sono alla base di ogni competizione sportiva. In particolare dobbiamo rifarci al suo obiettivo primario, che è quello di mettere lo sport al servizio di un armonico sviluppo dell'umanità, per promuovere una società pacifica che si preoccupi di rispettare la dignità umana. Non dobbiamo mai dimenticarci che noi ci sfidiamo negli stadi per sentirci uniti nella competizione e non per creare nemici.
Noi atleti, consapevoli del nostro ruolo pubblico, ci impegniamo ad essere da esempio per tutti i tifosi. E quindi a comportarci in modo leale nei confronti dei nostri avversari, a non ricorrere a doping e mezzi illeciti, a non pronunciare parole offensive, a orientare la nostra condotta secondo le regole del fair play.
Dobbiamo inoltre aiutare le società sportive nelle quali pratichiamo la nostra attività a reagire in maniera decisa e senza sconti quando sono vittime di un ricatto. Soprattutto bisogna combattere l’atteggiamento e la volontà – di dirigenti, allenatori e anche di alcuni compagni di squadra – di "vincere a tutti i costi e con tutti i mezzi”.
Praticare lo sport è il nostro lavoro, ma è anche motivo di gioia per noi stessi e per chi ci segue. Non dobbiamo mai dimenticare quanto siamo fortunati.
Le parole sono importanti. E dobbiamo sempre tener conto, anche per via della popolarità di cui godiamo, di quanto un nostro pensiero sia oggi in grado di incidere nella società, e soprattutto tra i più giovani.
La parola chiave è rispetto: dell'allenatore, dell'avversario, dell'arbitro. Non possiamo permettere, ad esempio, che tra di noi ci sia del machismo. Lo sport ci educa prima di tutto all’eguaglianza tra gli esseri umani, tra le donne e gli uomini.
Un'altra parola chiave è coerenza. La coerenza di dire sempre no al razzismo e a ogni manifestazione di odio, anche a costo di schierarci contro una parte della nostra tifoseria. Questo è il mondo in cui vogliamo vivere: un mondo dove siamo tutti uguali nel rispetto delle differenze. Noi sportivi, abituati da sempre a far vita di spogliatoio, a condividere spazi, sogni e speranze, diversi e uguali allo stesso tempo, lo sappiamo bene.
Noi sportivi siamo i bambini di ieri che da adulti hanno realizzato i loro sogni. Ai bambini di oggi vogliamo dire: sognate con noi e fate di tutto affinché i vostri sogni si trasformino in realtà. E se non raggiungerete i vostri obiettivi non sarà grave, almeno ci avrete provato. È quella la cosa che conta davvero. Anche coloro che non diventano campioni e praticano lo sport sono sportivi come noi. Noi siamo messaggeri che devono trasmettere a tutti la bellezza dello sport come arricchimento della persona umana.


I giornalisti
Fare il giornalista sportivo comporta una assunzione di responsabilità. I nostri articoli, i nostri commenti negli spazi televisivi o radiofonici, devono essere orientati da questa consapevolezza. 
Ci sono milioni di persone che non assistono al fatto sportivo che viene raccontato, ma che lo rivivono attraverso le nostre cronache e i nostri commenti. Abbiamo il dovere di essere il più possibile oggettivi, pacati ed equilibrati. I tifosi sono influenzati dalle nostre parole, dobbiamo usarle consapevolmente per educare all’amicizia e al rispetto in nome dello sport.
Dobbiamo esaltare la correttezza nello sport, i comportamenti virtuosi degli atleti sul piano tecnico, sul piano dello spirito agonista e sul piano umano. Abbiamo il compito di mostrare il valore di un atleta indipendentemente dalla sua origine, dalla sua religione, dalla squadra o nazionale in cui opera: dobbiamo mettere l’accento sulle sue doti come agonista sportivo e come persona responsabile. Così insegniamo l’uguaglianza tra gli esseri umani e mostriamo che il talento di un atleta è un patrimonio per tutti e che nello sport non ci sono nemici e differenze. Anche se abbiamo una simpatia per una squadra o per un atleta, non dobbiamo mai cadere nell’offesa e nella denigrazione di una compagine o di un avversario sportivo. Una nostra parola scritta in leggerezza o inappropriata potrebbe avere gravi conseguenze.
Di fronte a manifestazioni di odio nelle curve degli stadi abbiamo il dovere di essere chiari. I "buu" contro giocatori neri, gli slogan offensivi di identità, religione e provenienza geografica, non sono goliardia ma razzismo. E noi dobbiamo essere in prima linea a veicolare questo messaggio. Oggi la battaglia per un’etica nello sport, contro l’odio e la cultura del nemico negli stadi dipende anche da noi giornalisti. Dobbiamo essere consapevoli che quanto accade negli stadi, tra i tifosi, tra gli atleti ha un effetto anche nei comportamenti quotidiani nella società.
Con il nostro lavoro di ricerca e di informazione, possiamo divulgare le storie dei Giusti dello sport, di quegli atleti che nei momenti più bui dell’umanità si sono assunti una responsabilità nei confronti di donne e uomini perseguitati nelle dittature, nei genocidi, nei totalitarismi o che ancora oggi cercano di prevenire il male e di aiutare il prossimo nei momenti di crisi. Le loro vicende raccontate ai tifosi e agli atleti possono non solo creare una emulazione positiva nella società, ma anche educare alla correttezza e al rispetto dell’altro nella competizione sportiva. Quando lo sport non dimentica la memoria del bene e ricorda i suoi atleti più responsabili diventa più maturo e preserva lo spirito olimpico originario.

SI PUO' ADERIRE ALLA CARTA DELLO SPORT A QUESTO LINK

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    Tags:
    gariwo onlus; “la contesa buona. proposte per uno sport responsabile"; carta dello sport





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