Anonima “Ariadne auf Naxos” alla Scala

Non convince l'Ariadne scaligera, la cui prima rappresentazione è avvenuta venerdì 15 aprile

Di Francesco Bogliari
Ariadne auf Naxos (Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)
Milano
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Anonima “Ariadne auf Naxos” alla Scala

Più che di Arianna a Nasso (Ariadne auf Naxos) dovremmo parlare di Arianna in Italia o anche di Arianna nel mondo. Perché l'opera di Richard Strauss è stata data a Bologna in marzo, adesso è alla Scala e in giugno sarà a Firenze; ma in questi giorni è anche al Metropolitan di New York e a Montpellier, a gennaio è stata a Berlino e Monaco di Baviera, a marzo a Brno e Bielefeld, a maggio sarà a Limoges, Wuppertal e Sofia. Chissà a cosa si deve questa insolita fortuna del capolavoro metateatrale di Strauss e Hofmannsthal. I cinici e gli esperti di business teatrale (che spesso coincidono) ci spiegano che è un “prodotto” leggero e poco costoso da mettere in scena: orchestra piccola (38 elementi), non c'è il coro, per le scenografie non servono gli elefanti e nemmeno masse di comparse con alabarde e bandieroni. Quindi un perfetto spettacolo da epoca low-budget. Ci sta. E va bene, anche se la causa fosse solo questa. Pur di vedere e rivedere questo prodigio di teatro in musica tutte le scuse sono buone. Fine della prima premessa.

Seconda premessa: la prima Ariadne di chi scrive fu al Metropolitan di New York nel 1988: Jessye Norman era Arianna, Kathleen Battle Zerbinetta, Tatiana Troyanos il Compositore; direttore James Levine. Come una partita di calcio con Pelè, Maradona, Van Basten e Zoff, tutti insieme. Quando si ha una simile pietra di paragone è meglio dimenticare, far finta di non essere stati lì quella sera (poi, per dire, la sera successiva Jessye Norman cantò i Vier Letzte Lieder di Strauss sempre sotto la bacchetta di Levine...), perché niente, almeno sotto l'aspetto del cast vocale, potrà mai essere a quell'altezza. Forse, chissà.

Ci sono state altre Ariadne nella nostra vita; alla Scala quella elegante di Jeffrey Tate del 2006 e quella deludente (salvo l'esilarante Alexander Pereira – il sovrintendente scaligero dell'epoca – nei panni del Maggiordomo) diretta da Franz Welser-Möst del 2019. Peccato non avere visto il mitico spettacolo di Sinopoli con la regia di Ronconi del 2000. Niente male quella di Bologna del mese scorso, con una eccellente prova orchestrale di Juraj Valčuha, una emozionante Victoria Karkacheva nella parte del Compositore e una frizzante Olga Pudova in quella di Zerbinetta, una regia convincente nel prologo, meno nell'opera.

Ma veniamo alla nuova Ariadne scaligera, produzione importata da Salisburgo, la cui prima rappresentazione è avvenuta lo scorso venerdì 15, venerdì santo. Nessun incantesimo, anzi… Fin dalle prime battute si è capito che l’orchestra non era in serata: sfuocata, fuori registro, fiacca. Non c’è bisogno di andare alla antica memoria di Levine, basta quella recentissima di Valčuha, che aveva tirato fuori dall’organico bolognese un suono terso, limpido, luminoso, che è poi il segreto del miracolo musicale di questa partitura. L’esatto opposto di quello prodotto da Michael Boder, con gli stessi strumentisti (cioè una parte di loro, dato il piccolo organico previsto dalla partitura) che avevano suonato alla grande nelle ultime settimane (Thais, Dama di picche, Don Giovanni). 

Le cose non vanno meglio sul piano della compagnia vocale: Krassimira Stoyanova, più volte ascoltata al Piermarini, è una buona cantante, niente di più, anche con poco carisma scenico. Rachel Frenkel, il Compositore, ha voce corretta ma esile, un po’ aspra negli acuti e debole nel registro centrale. Erin Morley è una Zerbinetta che fa alla perfezione tutte le note e tutte le acrobazie previste dalla parte, ma la sua emissione è troppo sottile, da zanzara come ha commentato un perfido amico molto più autorevole dello scrivente in materia; però alla fine della grande aria il teatro è venuto giù dagli applausi (pubblico quasi interamente composto da stranieri in vacanza - il che, beninteso, è una bella cosa - tutti pittati, acchittati, vestiti da “prima” e felici di essere dentro il Piermarini per potersi fare dei ricchi selfie).

Del Bacco di Stephen Gould, fu heldentenor wagneriano, è meglio tacere. I migliori della serata sono stati Markus Werba nella parte purtroppo minore del Maestro di musica: alla ben nota eleganza di fraseggio e ricchezza di timbro il baritono austriaco ha aggiunto un significativo potenziamento di volume vocale. E le tre ninfe, una delle quali la più che promettente Caterina Sala, bravissime nel timbro, nell’intonazione e nel volume.

Spettacolo registicamente anonimo, con un’unica trovata scenica, ripetuta con monotonia, quella di far scivolare i cantanti su un coperchio di pianoforte rovesciato (quando è toccato a Gould si è temuto che si spezzasse…). Divertenti le maschere che girano per il palcoscenico in monopattino, neanche fossero in corso Buenos Aires; graziosi i costumi, soprattutto quelli maschili; ariose e ben illuminate le scenografie. Nient’altro da segnalare. Viene solo da chiedersi: una brutta Ariadne tre anni fa con Pereira, una scialba Ariadne adesso con Meyer. Quando avremo una Ariadne degna – per regia, direzione orchestrale, cast vocale – della Scala? Perché La Scala è pur sempre quel grande teatro che nelle ultime settimane ci ha regalato spettacoli di assoluto livello come La dama di picche e Don Giovanni.