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Cronache
Brescia, bengalese violenta la moglie ma il pm lo assolve: che cosa c'è dietro

Violenza sulla moglie, il pm assolve il marito bengalese: ha confuso l’approvazione sociale con l’intenzione di nuocere. Commento 

La vicenda, recentissima, è nota: dinanzi alla denuncia per maltrattamenti all’ex moglie, un pubblico ministero della procura di Brescia, oltre a ritenere del tutto insufficienti gli elementi forniti dalla signora a sostegno della sua doglianza, ha chiesto di lasciar cadere l’accusa al marito, originario come la donna del Bangladesh, perché i costumi nativi dell’uomo, la sua “cultura” di origine, non gli permetterebbero di scorgere alcunché di illecito in tali comportamenti. Ergo l’elemento soggettivo, essenziale perché in essi si possa ravvedere un reato, mancherebbe totalmente. Si noti che questa argomentazione non è la stessa di chi sosterrebbe, poco plausibilmente, che l’imputato, abituato a quella del suo paese, non conosce la legge italiana.

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Dinanzi alle proteste provocate dalla richiesta del pm, la Procura di Brescia, per bocca del suo capo, si è dissociata, e ha ribadito la condanna di qualsiasi forma di “relativismo giuridico”. Questo è strano: nessuna Procura della Repubblica è tenuta a professare una specifica dottrina del diritto. Inoltre questa dichiarazione dottrinale non ha alcuna conseguenza processuale perché, come il Procuratore Capo ammette, non può legare i suoi sostituti.

La dottrina professata anche se non praticata da Brescia, comunque, direbbe che i maltrattamenti alla moglie, non solo i lividi o le cicatrici delle frustate ma anche l’umiliazione, restano tali anche a 16 ore di aereo di distanza. E sono da condannare in entrambi i luoghi, Brescia e Dacca. Dopo tutto, una delle massime più universali del diritto delle genti elaborate dai Romani raccomanda: neminem ledere. Questo lo possono capire tutti: neminem! Dunque ne sono tutelate anche le donne del Bangladesh.

Forse è vero, ma se di fatto in Bangladesh i maltrattamenti condannati non lo sono, anzi apprezzati in quanto giusta manifestazione della naturale superiorità maschile e dunque compiuti anche a sostegno dell’ordine costituito?

Una posizione compatibile con quella di Brescia ma non così spinta in senso universalistico sarebbe la seguente: non possiamo tollerare che in Italia quell’uomo picchi la moglie con la soddisfazione e la piena legittimità con cui ha dichiarato che lo faceva in Blangladesh. Il fatto che lo poteva tranquillamente fare in Bangladesh non toglie che qui la legge italiana non gli consente di farlo. L’imputato di Brescia ha sbagliato a venire in Italia. Avrebbe dovuto restare in patria, o eventualmente trasferirsi in Arabia Saudita, dove i lavoratori immigrati sono sì trattati da semi-schiavi, ma nessuno impedisce loro di schiavizzare ulteriormente e quanto ferocemente vogliano le mogli.

Ma forse non possiamo descrivergli la nostra legge dicendo che essa vieta “i maltrattamenti” alla moglie, perché, volendo seguire fino in fondo il nostro pubblico ministero innocentista, egli non capirebbe questa espressione. Per lui gli schiaffi i pugni le bastonate le frustate non sono maltrattamenti, ma giusti sacrosanti trattamenti. Bisognerà spiegargli che in Italia, per quanto strano gli possa sembrare, schiaffi pugni ecc. sono vietati in quanto tali, in generale e mogli non escluse.

Cerchiamo di concludere: il cittadino bengalese sa benissimo che gli schiaffi e i pugni fanno male, sempre e ovunque. Gli universalisti hanno ragione a sostenere che uno schiaffo fa altrettanto male a Brescia che a Dacca. L’intenzione di nuocere, cioè, di causare spavento e dolore, quando il nostro amico bengalese li somministra, a Dacca o a Brescia, c’è. Dunque l’ ”elemento soggettivo” di cui il pm ha affermato l’assenza c’è eccome. Egli ha confuso l’approvazione sociale con l’intenzione di nuocere. Naturalmente noi italiani penseremmo che un atto mirante a nuocere riscuota disapprovazione non approvazione sociale, anche quando ne fosse investita la moglie dello schiaffeggiatore. Peccato che a Dacca non sia così.


 

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