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Economia

Il 2019 potrebbe rivelarsi un anno “cruciale” per il settore creditizio italiano, ancor più di quanto non siano stati gli ultimi due anni: non solo la Bce deve decidere se rinnovare o meno i finanziamenti a tasso stracciato forniti con le ultime due Tltro (in scadenza a giugno e dicembre del prossimo anno), in più mentre si cerca una soluzione per Banca Carige, col governo che ha già stanziato tre miliardi per le garanzie sui futuri bond e 1,3 miliardi per l’eventuale ricapitalizzazione precauzionale, a Bari scoppia l’ennesima crisi che da tempo covava sotto la cenere e gli Jacobini sono tentati dal varare uno spezzatino per cercare di evitare il peggio.

Banca Popolare di Bari è alla Fiera Internazionale dell’agricoltura di Foggia
Marco Jacobini

Come ha segnalato l’agenzia Reuters, infatti, Banca popolare di Bari, da sempre facente capo alla famiglia Jacobini potrebbe dover varare un robusto aumento di capitale da 500 milioni di euro (300 milioni in nuove azioni, 200 milioni in bond subordinati) in vista della trasformazione in Spa alla quale sta lavorando Vincenzo De Bustis, ex top manager di Mps e Deutsche Bank Italia, già direttore generale dell’istituto tra il 2011 e il 2015, tornato coi gradi dell’amministratore delegato alla fine dello scorso anno per cercare di mettere in sicurezza i conti.

Piccolo particolare: le nuove azioni dovrebbero essere offerte al valor nominale (5 euro), senza sovrapprezzo e senza diritto d’opzione agli azionisti esistenti, che quindi subirebbero una pesante diluizione. Diluzione che segue, peraltro, il tracollo già registrato dai titoli, che teoricamente sarebbero scambiabili sul “mercatino” Hi-Mif, di fatto restano congelati in assenza di scambi perché non esiste alcun compratore interessato sebbene il prezzo di riferimento sia stato abbassato sino a 5,4 euro (e il limite minimo di inserimento degli ordini a soli 2,38 euro).

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Giulio Sapelli
 

Ugualmente non trova quasi acquirenti il bond subordinato dell’istituto, per il quale gli scambi sono al lumicino nonostante renda ormai il 23% (contro il 13% offerto da Carige al fondo interbancario di tutela dei depositi per riuscire a far sottoscrivere 320 milioni del proprio bond Tier 2 a fine novembre). Eppure i livelli attuali dei titoli azionari, in particolare, sono già di un 40% inferiori rispetto agli 8,95 euro dell’ultimo aumento di capitale, da 350 milioni, varato nel marzo 2017.

Un’operazione che non bastò, come non bastarono le successive cartolarizzazioni di Npl assistite dalle garanzie statali (Gacs), a riportare i crediti marci entro una soglia accettabile dalla Bce. Alla fine del primo semestre 2018 (chiusosi con un rosso di 139 milioni) le sofferenze nette erano pari a 457 milioni su 8,5 miliardi di impieghi (il 5,35%) mentre i crediti deteriorati netti (Npl) toccavano il 18,4% (contro il 17,6% di fine 2017) e quelli lordi erano pari a quasi un quarto del totale: 2,57 miliardi contro 7,04 miliardi di crediti “in bonis”.

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Vincenzo De Bustis

Che fare, dunque? Secondo alcuni rumors raccolti da Affaritaliani.it l’ipotesi allo studio è un possibile “spezzatino” col quale scorporare alcune attività, ripartire il peso dei crediti deteriorati e magari ridurre l’attivo (superiore ai 14,5 miliardi a fine giugno) entro la soglia degli 8 miliardi sopra la quale scatta sia l’obbligo di trasformazione in Spa, sia la vigilanza da parte della Bce.

A pensar male si fa peccato, ma tornare ad essere un istituto “regionale” e non avere più il fiato di Francoforte sul collo, tanto più in vista del cambio al vertice di Eurotower (Mario Draghi lascerà l’incarico a fine ottobre e tra i più accreditati a succedergli c’è l’attuale numero uno di Bundesbank, Jens Weidmann), potrebbe significare riuscire a guadagnare ulteriore tempo evitando che i 70 mila piccoli azionisti dell’istituto si precipitino in massa ad esercitare il diritto di recesso, causando un’ulteriore falla nel delicato equilibrio dei conti dell’istituto barese.

Che a Bari si respiri un’aria pesante è del resto testimoniato dalla decisione, clamorosa, di Giulio Sapelli che come ha raccontato Affaritaliani.it si è dimesso appena 10 giorni dopo la nomina a vicepresidente dell’istituto, il 13 dicembre scorso, senza che l’istituto ravvisasse l’opportunità di informare il mercato del passo indietro dell’economista.

Luca Spoldi

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