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Salento, zia Valeria... e dintorni (2 parte)

Correva il periodo di Natale, dicevo sopra, con Valeria che si girava e rigirava fra mani e braccia, si provava, indossandolo a riprese infinite, quel capo, manifestando una gioia da settimo cielo, quasi si sentisse, insomma, con un altro riferimento proverbiale, felice come una Pasqua, per voler dire al massimo livello.

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Abbastanza presto, in confronto alle consuetudini locali, i due “colombi”, i quali, del resto, vivevano fisicamente distanti, concordarono e fissarono la data delle nozze, marzo o aprile del 1954.

Favolosa si presentava nelle sue doti di semplicità e bellezza, esaltate dall’abito bianco, zia Valeria, all’altezza pure lo sposo, con indosso, a sua volta, l’elegante divisa militare da cerimonia. Io contavo solo tredici anni, ma ero in grado di registrare l’intera scena con la precisione e l’abilità di un provetto regista cinematografico.

Dopo il rito religioso nella chiesa parrocchiale di Marittima, protagonisti e invitati, inclusi, ovviamente, i parenti e gli ospiti del neo-marito, via, tutti insieme, a raggiungere la casa degli sposi (il fabbricu nuovo, si diceva in dialetto) a Ortelle.

Anche il rinfresco restò impresso fra gli astanti, non ricalcava i soliti “complimenti” alla buona e spartani (qualche bicchierino di liquori fatti in casa e uno/due dolcetti ordinati a Nena Maroccia) serviti durante i comuni matrimoni marittimesi, ma consisteva in un ricevimento di qualità con una serie di portate gustose, oggi si parlerebbe di catering, commissionato al miglior bar pasticceria di Poggiardo.

Il giorno dopo, i freschi coniugi partirono per il viaggio di nozze (pure questa iniziativa non era comune e diffusa ma rara), nel corso del quale, rammenta il testimone tredicenne, transitarono anche per la località laziale di Alatri, con l’intento di dare un saluto e consegnare i confetti al mio fratello maggiore Antonio, che stava lì, in un convitto dei Padri Scolopi, a frequentare il Ginnasio.

Concattedrale di Castro

Al ritorno dal viaggio, pur esistendo il fabbricu nuovo di proprietà a Ortelle, prestando, zio Toto, servizio a Taranto, la coppia si trasferì in quella città, in un appartamento in affitto in via Regina Elena, nei pressi della chiesa di S. Francesco di Paola.

Feci in tempo, io, all’età di diciannove anni e mezzo, intraprendendo, a mia volta, l’attività lavorativa giusto nel capoluogo ionico, a render loro visita, intanto che la famiglia, nel breve intervallo trascorso, si era allargata con ben tre figli: R. (figlio), R. (figlia), dai nomi uguali a quelli dei nonni paterni e L. (figlio), il cui appellativo ricordava la nonna materna Lucia, da poco mancata.

Un particolare indicativo: in quegli anni, come prima indicato, i bambini non nascevano in ospedale o in clinica, bensì nell’abitazione dei genitori, nel loro “letto grande” e la puerpera era assistita semplicemente dalla levatrice e, specialmente, dalle donne di famiglia già sposate, perciò zia Valeria, non avendo a Taranto alcun parente, nel dare alla luce i figli, per tutte le tre volte, si spostò sistematicamente a Ortelle.

A un certo punto, ragioni collegate al servizio di zio Toto imposero il trasferimento dell’intero nucleo famigliare ad Augusta, nel sud della Sicilia, e lì, vedi ancora una volta il filo che tiene vivi e lega gli autentici sentimenti affettivi, io e mia moglie Annunziata, sposi nell’aprile 1964, ci recammo in visita, durante il nostro viaggio di nozze.

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Non molto tempo dopo, per ovviare ai pesanti e talora ardui spostamenti, zio Toto lasciò la Marina Militare, ottenendo, contestualmente, un impiego civile, sempre in seno all’amministrazione statale, a Como. Una volta sistematisi lì, lo stesso zio Toto (purtroppo, deceduto quindici anni addietro), zia Valeria e i figli non hanno più lasciato la città lariana.

Tuttavia, Como, in barba alla sua posizione geografica a ridosso del confine, non ebbe a rivelarsi, almeno per me e la mia famiglia, una lontana America, atteso che, pure a noi, per colpa o merito del bancario Rocco, toccò, nel 1978, di andare a risiedere in Lombardia, a Monza, in pratica a due passi dalla casa degli zii.

Ci vedevamo spesso da loro, colpiva, all’ingresso dell’abitazione, in bella mostra, la sciabola da ufficiale del primogenito nostro cugino R., segno di continuità ideale e generazionale, nell’intimo e nel sano orgoglio di zio Toto, memore della medesima “arma” a lui assegnata in dotazione, quando, da militare, aveva conseguito l’avanzamento da Secondo Capo a Maresciallo di Marina.

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Zia Valeria e zio Toto hanno così avuto modo di seguire la crescita dei miei figli, Pier Paolo, Imma e Daniele; accadeva, addirittura, che Annunziata ed io, dovendo in qualche circostanza assentarci brevemente da Monza, affidassimo loro i nostri più piccoli, Imma e Daniele, che, ancora adesso, rimembrano le lunghe partite a carte con i gentili e premurosi pro-zii.

Guarda ancora caso, mentre io ero impegnato a Monza, il terzo dei cugini, L., conseguì la maturità; al che, traendo anche spunto dalle buone votazioni da lui riportate, mi offrii di indirizzarlo per l’eventuale assunzione nella mia stessa banca, il che avvenne, in breve volgere di tempo, presso la filiale di Como. L’ultima volta che mi sono recato sulle rive del Lario risale al giorno delle esequie di zio Toto.

Da allora, zia Valeria, ha inevitabilmente dovuto rinunziare agli annuali viaggi a Ortelle e a Marittima, d’estate, con la Fiat 850 del marito. Intanto, andava vie più avanzando l’età e le sopravveniva, ovviamente, qualche acciacco.

Sono rimasti, con saltuarietà, i contatti telefonici, gli auguri per Natale e Pasqua, l’invio puntuale, alla zia, dei miei libri, da lei letteralmente divorati con estremo piacere, nella contentezza di rivivere luoghi, posti, vicende, volti e racconti, in parte famigliari, conservati nella mente e nel cuore.

Nel dicembre 2017, l’ultimo dei cugini, L., il collega bancario, alla vigilia del cinquantanovesimo compleanno, ha deciso di compiere l’importante passo del matrimonio e, suo più recente atto di rilievo, con decorrenza 1° ottobre 2018, ha scelto di porre fine all’attività lavorativa, scivolando anticipatamente in quiescenza.

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In detta, fresca occasione, il cugino ha inteso fare un regalo, graditissimo, a me, a mia moglie e a mia sorella Teresa, una sorpresa completamente inaspettata, scendendo per alcuni giorni a Ortelle e, si capisce, a Marittima, insieme con la moglie Valentyna e la madre, la cara zia Valeria.

Al che, noi salentini ci siamo immediatamente fiondati nel “nido” di Ortelle, l’antico fabbricu degli sposi sulla strada provinciale, che, abitualmente vuoto e silente, agli inizi del mese appena trascorso, per un improvviso prodigio, si presentava con la porta d’ingresso dischiusa.

È scattato un tuffo interiore nello scorgere, dopo tanto tempo, la figura di zia Valeria, insieme con la coppia di famigliari, con il suo solito sorriso e i tratti dolci e immutati - tranne, beninteso, taluni fisiologici aggiornamenti - rispetto alle stagioni lontane.

Portamento eccezionalmente eretto ove si consideri che ha superato gli ottantotto e, come partecipatoci, che le è pure toccato, a più riprese, di affrontare una sequenza di problemi di salute affatto marginali.

Per buona sorte, tali malanni hanno lasciato una sola traccia indicativa e tangibile, ossia a dire saltuari vuoti nella memoria, si, precisamente saltuari, nel senso che, dopo qualche pausa di obnubilazione su eventi e/o figure di persone, le visioni e i ricordi della zia si rifanno nitidi e i discorsi e ragionamenti collegati riecheggiano puntuali e in completa aderenza e attinenza.

In pochi minuti, intrecci intensi di sguardi e parole, quasi un rincorrersi di domande e di risposte. Emozione e commozione, accentuate dall’esserci ritrovati fra quelle pareti, già scenario di un mitico sposalizio.

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Dopo il saluto a Ortelle, ho fortemente desiderato che, il giorno successivo, i parenti comaschi fossero ospiti a pranzo nella mia villetta alla “Pasturizza” di Marittima e, in tal modo, sono proseguiti i discorsi e le rievocazioni su stati di cose attuali e, specialmente, su occorsi passati, a completamento del grosso, affettuoso regalo – tengo a sottolineare ancora – da parte degli ospiti giunti da lontano e finalmente rivisti.

Così, che m’è venuto spontaneo di contraccambiare. Nell’arco del pomeriggio e sino al tramonto, ho fatto dunque accomodare i parenti sulla mia autovettura, intraprendendo, in loro compagnia, un percorso di rivisitazione di luoghi e rivitalizzazione di eventi e rimembranze

Il giro è invero iniziato sotto forma di un salto all’indietro di tre quarti di secolo, attraverso, cioè, una veloce visita alla marittimese Anita, coetanea e compagna delle Elementari di zia Valeria: e, qui, colpivano i sorrisi radiosi di due ragazzine di ieri.

Quindi, una serie di sopralluoghi su siti e posti che furono testimoni degli anni giovanili e degli impegni della zia nei lavori agricoli: il fondo dell’Aria, i Munti, il giardino delle Signurine e quello della riciddra, la Marina ‘u civile, il Serrito, dove si prendevano anche i bagni di mare, l’Acquaviva, Torre di Capo Lupo.

Il giro si è concluso con una sosta nella dimora comune di tutti i marittimesi, ombreggiata da cipressi secolari, e la sfilata al cospetto di tanti volti occhieggianti da fotografie impresse su lastre marmoree e/o di comune pietra leccese.

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Fra le figure che non ci sono più, mi limito a citare unicamente quelle di mia madre e della nonna Lucia; quest’ultima, genitrice, come annotato in altro capoverso, sia di Immacolata che di Valeria, anche nell’effige del camposanto appare contraddistinta dai suoi capelli bianchi e ricci che rimandano quasi fedelmente alla chioma attuale della sua vivente figlia piccola.

Un’esistenza normale, ordinata e lineare e, però, piena, quella della zia, cui, è chiaro, è espressamente e nominativamente dedicata questa narrazione. Allo stato, ella va completando il proprio percorso attorniata, oltre che dai figli, anche da cinque nipoti già grandi e, ormai bisnonna, anche da una pronipote.

Nell’atto di accomiatarci (a quel punto, affiorano i suoi menzionati saltuari vuoti di memoria), Valeria mi ha rivolto un interrogativo confidenziale, esclusivo e, insieme, estremamente affettuoso: “Ma, Rocco, dimmi un po’, tu sei figlio di Immacolata, la mia sorella grande, non è vero?”.

E, io, gli occhi accennanti a divenire per un attimo lucidi, mi sono portato dentro, custodendole gelosamente, le sue parole. 

(2 - fine)

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Pubblicato in precedenza: Salento, zia Valeria... e dintorni

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