L’inchiesta su Milano: la visione rischiosa dell’ambizione verticale

Di Ernesto Vergani

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala

Lo sguardo libero

Nel 2018, in un’intervista a una rivista internazionale, Giuseppe Sala celebrava la trasformazione verticale di Milano: “una città che cresce in altezza e guarda al futuro come Londra, Dubai, New York e le grandi metropoli dell’Estremo Oriente”. Una visione sfidante, che mirava a coniugare crescita urbana e coesione sociale, evitando una città a due velocità. Per questo, sottolineava il sindaco, era essenziale dare spazio alle periferie, coinvolgere i cittadini, integrare l’architettura con la sua funzione pubblica. Tenere insieme ambizione e inclusione è però un equilibrio delicato. Ed è forse proprio in questa tensione tra visione e realtà che si annidano alcune delle fragilità oggi emerse all’attenzione della magistratura.

L’inchiesta in corso – che ha scosso l’immagine di Milano, la capitale economica e finanziaria del Paese, con oltre il 5% del PIL nazionale – ha colpito al cuore la macchina urbana. Tra i 74 indagati figura anche il sindaco Sala, che non si è dimesso. Lo ha fatto invece l’assessore alla Rigenerazione urbana, Giancarlo Tancredi, per il quale la Procura ha chiesto gli arresti domiciliari. Si è parlato molto di carte giudiziarie, intercettazioni e rapporti con gli sviluppatori, così come dei protagonisti finiti sotto inchiesta. Poco, invece, della questione di fondo che questa vicenda dovrebbe riportare al centro del dibattito: è giusto, opportuno, sostenibile costruire in alto?

La normativa italiana consente lo sviluppo verticale: i grattacieli sono legittimi se previsti dal Piano di Governo del Territorio. Tuttavia, serve equilibrio tra interesse pubblico e iniziativa privata. Ed è su questo punto che si concentrano molte delle critiche: premi volumetrici generosi, cortili reinterpretati come edificabili, demolizioni solo formali, vantaggi significativi per i costruttori, a fronte di benefici pubblici incerti o marginali. Il principio secondo cui costruire in alto serve a lasciare più verde a terra può anche essere valido. A Milano, spesso, questo si è trasformato in una narrazione conveniente per giustificare operazioni immobiliari esclusive.

Nei nuovi grattacieli abitano alcuni volti noti, professionisti internazionali di passaggio, investitori attratti dalla flat tax, facoltosi stranieri che vi soggiornano un paio di volte l’anno per motivi di shopping o status. A chiarire il senso di tutto questo viene in aiuto anche l’etimologia. Abitare deriva dal latino habito, frequentativo di habeo, cioè “avere, tenere con continuità”. Dalla stessa radice proviene abito, nel senso di vestito: qualcosa che si indossa, si modella su di sé, si adatta al corpo. Abitare un luogo non significa semplicemente occuparlo o comprarlo, ma farlo proprio, cucirselo addosso, viverlo nel tempo. Non basta un attico con vista per rendere autentica una città. Servono accessibilità, continuità, relazioni. Persone che non passano, ma restano. Costruire in alto non è di per sé sbagliato. Lo è, se a salire sono solo i profitti e a restare schiacciati sono gli abitanti veri, quelli che Milano la vivono ogni giorno.

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