Covid, la normativa emergenziale e i pericoli per la giustizia
Giustizia ed emergenza Covid
Anche oggi ci tocca, purtroppo, parlare di Covid; come lo scorso anno scrutando nella palla di vetro del futuro, per distinguere tra rischi e opportunità, ma avendo anche la possibilità di trarre qualche insegnamento dall’esperienza fatta. Se allora guardavamo all’ufficio per il processo come ad un’opportunità, ora è diventato una scommessa, che dobbiamo cercare di vincere credendoci tutti: avvocati, magistrati e personale amministrativo.
La strada non è dritta, le incognite saranno diverse. Non c’è stata la corsa al posto da parte dei giovanissimi; i dirigenti e i magistrati dovranno accogliere e formare persone già professionalizzate, tra cui diversi avvocati (di cui peraltro ancora non si conosce l’esatto destino: potranno continuare ad esercitare la professione?). Non è detto sia un male, anzi penso che questo agevolerà la convivenza.
Gli Uffici Giudiziari stendono linee guida, le Università elaborano progetti. Ad entrambi servirà la diretta esperienza acquisita sul campo dagli avvocati. Sperando che questo avvenga sempre e dovunque. A Milano certamente sarà così.
Se l’anno scorso parlavamo dell’emergenza pandemica, oggi dobbiamo ragionare del suo superamento, poiché non è ammissibile uno stato d’eccezione che duri anni: se è così durevole, allora sarà uno stato di nuova normalità. Non è un sofisma: è sottrarsi ai pericoli insiti nell’abuso della normativa emergenziale, la quale viene estesa in modo non uniforme (per i processi penali e civili è stata allungata addirittura per tutto il 2022) e senza stabilire preventivamente per legge le modalità di ritorno alla normativa ordinaria.
Gli esempi sono tanti, prendiamo l’ultimo in ordine di tempo: con l’estensione agli avvocati dell’obbligo di green pass è stato sottratto al giudice il sindacato del legittimo impedimento dell’avvocato. La valutazione caso per caso costituisce l’essenza della giurisdizione. La Corte Costituzionale è intervenuta più volte nel passato recente per censurare gli automatismi che limitano la cognizione del giudice.
E sempre la Corte Costituzionale ci ha insegnato che non esistono diritti tiranni. Mi permetto di rafforzare il principio aggiungendo che neanche devono esistere diritti tiranneggiati, com’è stato in questi due anni per il diritto di difesa. Mi è spiaciuto vedere proprio il giornale degli avvocati titolare un autorevole intervento: “Cari colleghi, il diritto alla salute viene prima del diritto di difesa”.
*Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano
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Il momento è delicato, il timore è che si allentino alcuni freni inibitori mentre sono al lavoro le commissioni delegate a tradurre in norme i contenuti delle deleghe di riforma civile e penale. Occorrerà sapienza ed equilibrio per non sacrificare il giusto processo sull’altare della velocità e imboccando le scorciatoie del periodo emergenziale. Non va intaccata la pienezza del contraddittorio, anche nel secondo grado di merito. La ragionevole durata del processo potrà essere raggiunta piuttosto con nuovi modelli gestionali e piattaforme digitali finalmente ispirate alla modernità e non al modernariato.
Sono concetti più volte ripetuti dalla Ministra Cartabia, da ultimo pochi giorni fa in Senato, quando ha spiegato che la digitalizzazione non si esaurisce nella “dematerializzazione delle carte” poiché prevede piattaforme tecnologiche nuove. Ma non basta. È anche necessario che si ponga fine al federalismo digitale, fenomeno per cui ogni processo ha la sua piattaforma, affidata alla gelosa quanto imperfetta custodia di Ministeri diversi. Occorre, invece, che la digitalizzazione della giustizia venga integrata in quella della Pubblica Amministrazione del Paese. Un obiettivo fondamentale del PNRR la cui attuazione è affidata al Ministero per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale.
L’Europa ci guarda e ci è entrata in casa con il piano sul Recovery. Lo ritengo positivo. Milano è abituata al confronto e alla competizione. Una nuova occasione sarà l’avvio della sede locale del T.U.B. (Tribunale Unificato dei Brevetti). Superato il problema giuridico che bloccava l’adesione al Trattato della Germania e con, notizia recentissima, l’adesione dell’Austria, siamo veramente a un passo dalla partenza. Una ventata di entusiasmo che ci rinvigorisce e rafforza nella richiesta al Governo di non lesinare energie nell’impegno volto ad assicurare a Milano la Sezione distaccata della Corte che ha lasciato Londra dopo la Brexit.
Non si può chiudere il tema riforme senza parlare dell’ordinamento giudiziario e fingendo di ignorare il disorientamento provocato dalle ultime decisioni della giustizia amministrativa che hanno decapitato il vertice della Corte di Cassazione. Difficile pensare che sia solo un problema di regolamento di confini, e non di mutati rapporti di forza per la crisi dell’organo di governo della magistratura. Non disponiamo di ricette miracolose, né desideriamo che la tradizione culturale delle correnti vada buttata via con l’acqua sporca delle scelte operate per appartenenza. Riteniamo però che la malattia si chiami chiusura e che la cura si chiami ventilazione.
Ciò significa una riforma dell’ordinamento giudiziario aperta al contributo di tutti e l’abbandono di certi tic autarchici come, tanto per prendere il più recente degli esempi, la recente bocciatura di tutti i 17 avvocati selezionati per l’ufficio di consiglieri della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 106 della Costituzione. E di certo non agevola l’uscita dal guscio, e quindi dalla crisi, che tutti ci auguriamo, la paura quasi viscerale di riconoscere il diritto di tribuna ai componenti non togati dei Consigli Giudiziari. Cosa che tradisce non solo il sospetto verso i “laici”, ma anche il retropensiero che i pubblici ministeri al cospetto dei giudici non siano parti processuali poste sullo stesso piano degli avvocati.
Se Sparta piange, Atene non ride: sicuramente, anche noi avvocati dobbiamo fare di più e di meglio. La crisi dell’avvocatura ricorda quella medievale dell’Età dei Comuni, quando un florilegio di entità fu collettivamente inaridito dall’incapacità di costituire insieme un’espressione unitaria. Questo ci impedisce di fare sintesi dentro un corpo sociale che nel volgere di pochi decenni ha perso omogeneità, divaricandosi in figure economiche e a tratti culturali distanti tra loro. Un problema che sentiamo maggiormente e prima in una città come Milano, con salde radici nel passato e volitivi rami protesi verso il futuro.
Al netto di questa doverosa autocritica, rimane gravemente patologica la rarefatta presenza di avvocati nelle commissioni ministeriali, là dove si cucinano le riforme. Si aggiunga che l’avvocatura è tanto assente nei decreti attuativi del PNRR per la giustizia quanto presente in ogni antro di tribunale. Se, invece, a dispetto dell’oblio normativo, la si vede contribuire fattivamente al miglioramento delle prassi territoriali, questo è grazie alla buona volontà dei singoli capi degli uffici, ed alla loro intelligenza. A Milano è così.
Qui magistratura e avvocatura sanno anche essere complementari e consapevoli di lavorare insieme nella e per la giurisdizione, con soluzioni che travalicano i nostri confini. Ad esempio, in materia di diritto di famiglia, le linee guida volte alla ricognizione ed alla discussione di prassi organizzative e interpretative in tema di redazione degli atti, le indicazioni operative per la Ctu su famiglie e minori ed il protocollo sull’ascolto del minore hanno di recente trovato riconoscimento in sede legislativa con le recente legge di riforma n. 206/2021.
I giovani. In un recente articolo, il Prof. Natalino Irti ha notato come le Università stiano abbandonando le materie speculative, fondamentali per la loro missione di formare giuristi, a favore invece delle materie pratiche di formazione professionalizzante. Saggia considerazione. Forse è proprio questo il brodo di coltura dell’inerzia ministeriale e dell’arrendevolezza delle istituzioni forensi che da dieci anni, data di approvazione della legge professionale, ci impediscono di consegnare ai nostri giovani avvocati la possibilità di conseguire una formale specializzazione.
Una situazione disperante, anche perché favorisce il fiorire di forme surrettizie e commerciali di specializzazione. Siamo in una palude, e per uscirci forse dovremo pensare a nuovi percorsi specializzanti e a nuove regole deontologiche adeguate al rivoluzionato mondo della comunicazione. Sta per avviarsi la nuova sessione di esami di abilitazione alla professione forense, anche quest’anno con la formula dell’orale rafforzato che ha suscitato il giudizio tutto sommato positivo dei commissari. Milano ha rispettato il suo ruolino di marcia e di ciò dobbiamo essere grati all’impegno messo dalla Corte d’Appello e dal suo Presidente. Tutti insieme confidiamo di ripeterci nel 2022.
Dobbiamo offrire una prospettiva a questi giovani, non solo con la manutenzione ordinaria della macchina giudiziaria (che pure è necessaria!), ma aiutandoli a riconoscere gli ambiti di tutela dei diritti nel mondo che sarà: incognito e denso di incognite. Il primo insegnamento dovrà venire loro dal prossimo Presidente della Repubblica che, per questo, auspico sia scelto tra chi dei diritti individuali si proponga di fare la propria bussola. Traendo esperienza dall’anno appena finito, ai giovani, ma non solo a loro, girerei il consiglio di Antonio Scurati, sul Corriere di qualche giorno fa, ossia di abbandonare “l’idea prometeica dell’uomo come dominatore della terra e del proprio destino” ed accettare l’idea che “non esiste un corpo sano ma un organismo sempre in precario equilibrio tra salute e malattia”.
L’operatore di giustizia deve esercitare lo sguardo d’insieme. Una pratica che lo aiuta a frenare la mano, sempre pronta a scagliare la prima pietra; a comprendere la complessità della giustizia e come, per un provvedimento rivelatosi non adeguato a frenare l’omicida tra le mura domestiche, ce ne sono mille, diecimila, che lo sono stati e che insieme hanno ricucito profonde lacerazioni del tessuto familiare e sociale.
Giustizia è anche solidarietà: quella che nel recente film l’ispettore sente verso il detenuto ma l’Aria Ferma del carcere gli impedisce di esternare. Giustizia è anche umanità: quella che di fronte al suicidio di una persona da troppo tempo avvinta nelle spire di un processo penale ci impone di sovrapporre il silenzio all’ansia di chiamarci fuori. Giustizia è anche dubbio, è curiosità. E’ l’istintiva protezione delle minoranze: quella che ci porta a sedere dalla parte del torto, e ancor di più se i posti della ragione sono tutti occupati.
Buon Anno Giudiziario!
*Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano