Madre uccide il figlio a Trieste, Parsi: "Non un gesto improvviso, ma...". E lancia l'allarme sulle crepe del sistema tutela

La dottoressa Maria Rita Parsi, psicologa, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Movimento Bambino, analizza il figlicidio di Trieste e mette in luce le gravi fragilità nella protezione delle famiglie più vulnerabili

di Federica Concas

Maria Rita Parsi, foto Editrice Il Castoro

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Figlicidio Trieste, Maria Rita Parsi ad Affaritaliani: "Quando la tutela fallisce, accade l'irreparabile"

Un bambino di nove anni è stato ucciso ieri sera a Muggia, vicino Trieste, con un taglio alla gola nella casa della madre. Secondo le prime indagini, a colpirlo sarebbe stata proprio la donna, 55 anni, di origine ucraina, che dopo l’omicidio ha tentato di ferire sé stessa tentando il suicidio. Quando i vigili del fuoco hanno forzato la porta, nell’appartamento regnava un silenzio irreale. In bagno, il corpo senza vita del piccolo. 

L’allarme era partito dal padre che, dopo ripetute telefonate senza risposta, aveva temuto il peggio. Una famiglia fragile, seguita da anni dai servizi sociali. Nulla, però, lasciava presagire un rischio così estremo. Eppure, ieri sera, tutto è precipitato all’improvviso, lasciando una comunità attonita e interrogativi profondi su quali crepe profonde siano rimaste invisibili fino all’ultimo.

Come può maturare un gesto così estremo? E soprattutto: quali fragilità non hanno trovato spazio per emergere? Affaritaliani ne ha parlato con Maria Rita Parsi, psicologa, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Movimento Bambino Onlus.

Professoressa Parsi, nel caso di Trieste siamo davanti all’atto più innaturale: una madre che uccide suo figlio. Come si distingue un crollo improvviso da un malessere profondo che nessuno ha saputo cogliere?

"In questo caso non parlerei di un gesto improvviso, ma di un atto che nasce da qualcosa di significativo accaduto prima: potrebbe essere una parola detta dal figlio, un avvenimento, un’osservazione, una mancanza di presenza. Vorrei dire una cosa, per me è fondamentale: James Hillman scriveva che i suicidi spesso avvengono nel momento di maggiore speranza.

Lo stesso meccanismo accade anche nei femminicidi e figlicidi: proprio nel momento in cui dovresti scegliere tra la possibilità di cambiare, curarti, rimetterti in piedi, prevalgono invece la rabbia e l’odio che covano da tempo. Ho sentito dire tante volte, da madri e da padri, frasi terribili: “Mio figlio è la mia espressione”, “È una mia proprietà”. Atteggiamenti del genere esistono eccome: tribali, arbitrari, primitivi. Sono molto più diffusi di quanto si creda".

Accade più spesso di quanto vorremmo credere, lei lo ha detto spesso parlando di infanzia ferita. Che cosa può portare un genitore a rivolgere violenza verso il proprio figlio?

"Quando una madre uccide il proprio figlio, è il mondo che si incrina. Perché si spezza l’archetipo più antico: quello della cura, della protezione, dell’amore. Deve essere accaduto qualcosa di significativo prima del gesto. Ma ci tengo a dire una cosa molto pesante: non si possono lasciare bambini di nove anni a vivere con una madre che ha forti disturbi. Che sia la madre, il padre o l’intera famiglia, quando c’è una patologia va valutata con la massima attenzione. Tanto più se c’erano segnali, tanto più se c’era già una separazione in corso. Questo per arrivare al punto: è evidente che qualcosa non ha funzionato nella tutela".

In questa vicenda pesano isolamento, distanza dalle proprie radici, conflitti familiari e perdita dell’affidamento. Come interagiscono questi fattori nel creare una frattura emotiva così profonda? Quando diventano un vero campanello d’allarme?

"Diventano un campanello d’allarme quando la società non accetta di vederli. Quando le strutture, le realtà istituzionali e sociali, non si rendono conto che una persona va integrata in un tessuto che non è quello originario della sua identità - territoriale, culturale, etnica. Se tu metti una donna straniera, proveniente da una cultura completamente diversa, e la inserisci in una società in cui non riesce a integrarsi, e dove il messaggio che riceve è: “Ti tolgo la tutela perché non sei in grado di occuparti di tuo figlio, perché economicamente non puoi, perché hai dei disturbi”, allora può accadere qualcosa di devastante.

Sarebbe necessario ricostruire a fondo la “storia interiore” di questa donna: ciò che ha vissuto, ciò che ha subito, ciò che ha perso. Perché quando una persona è già fragile, già malata, e poi le togli anche l’unica cosa che sente come parte di sé può scattare un pensiero terribile. È in questo intreccio di ferite, solitudine e perdita che si crea la frattura emotiva più pericolosa".

La tragedia di Trieste mostra una profonda vulnerabilità nel nostro sistema di tutela. Secondo lei, cosa manca davvero oggi per riconoscere le famiglie più fragili? Più presenza, più formazione, o una rivoluzione culturale nel modo in cui guardiamo il dolore?

"Tutto ciò che lei ha detto è vero. Trieste è il luogo simbolo della grande trasformazione della salute mentale: la chiusura dei manicomi, che erano prigioni dove si praticavano elettroshock, contenzione e trascuratezza. Basaglia aveva documentato quella condizione e da lì è partita la rivoluzione delle comunità che curano.

Comunità che oggi andrebbero rafforzate, con personale preparato e una presenza reale accanto a chi soffre. Perché la salute mentale non nasce dal nulla: è il risultato della famiglia, della società, dell’educazione. Quando si smette di investire in questa rivoluzione, torniamo indietro di decenni. La malattia mentale si combatte curando e prevenendo: costruendo scuole, ospedali, centri di recupero, comunità educanti. E soprattutto sostenendo la famiglia, che deve diventare il primo luogo di aiuto, guida e formazione".

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