Banche Ue, Mps e Intesa aumentano i soldi parcheggiati nei paradisi fiscali

Ogni anni più di 20 miliardi di profitti delle banche europee detenuti offshore. Il paradosso della "pubblica" Siena. I dati dell'Osservatorio fiscale europeo

di Marco Scotti e Andrea Deugeni
Carlo Messina e Guido Bastianini
Economia
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Oltre 20 miliardi ogni anno parcheggiati in paradisi fiscali che rispondono al nome di Stati come Bermuda, Isole Vergini britanniche, Isola di Mann, Jersey, Macao o Lussemburgo. È quanto emerge dall’Osservatorio fiscale dell’Ue che è stato pubblicato oggi. Si tratta di un documento, realizzato da un ente di ricerca indipendente, che è stato cofinanziato dall’Unione Europea con l’intento di dare maggiore trasparenza al mondo delle banche. Ebbene: da quanto si legge nel report, nel periodo tra il 2014 e il 2020 è stato mediamente “parcheggiato” il 14% degli utili pre-tasse totali.


 

A comandare la classifica la britannica Hsbc (che viene ancora ritenuta europea proprio perché l’analisi si rivolge al periodo tra il 2014 e il 2020, quando cioè Uk era ancora membro del Vecchio Continente). L’istituto di credito ha allocato nei paradisi fiscali poco meno del 60% complessivamente. In particolare, tra il 2014 e il 2016 il 54,4% e tra il 2018 e il 2020 il 62,3%.

In Italia l’istituto di credito più “attivo” da questo punto di vista (vedi tabella sotto) è Monte dei Paschi di Siena, che nel primo biennio ha collocato nei paradisi fiscali il 30,3% dei profitti e tra il 2018 e il 2020 il 49,8%. Dunque, quasi il 50% degli utili pre tasse di Rocca Salimbeni nel periodo 2018-20 è stato contabilizzato nei territori con fiscalità favorevole. 

Questo fa dell’istituto toscano la banca che ha incrementato maggiormente in ambito comunitario la quota di utili all’estero offshore. Un paradosso se si pensa che Rocca Salimbeni è una banca controllata al 64,2% dallo Stato. Il Monte, è immediatamente seguito, tra gli altri istituti di credito italiani, dalla prima banca nazionale Intesa Sanpaolo che, sempre secondo Osservatorio fiscale dell’Ue, dal biennio 2014-2016 a quello 2018-2020 ha quasi raddoppiato (dal 12,5% al 24,6%) la quota di utili pre-tasse “parcheggiati” nei paradisi fiscali. Tra i primi 10, quattro banche sono britanniche, due sono tedesche, una è francese e una è belga. L'altro campione nazionale tricolore UniCredit, invece, ha ridotto la propria quota dall'11% al 4,1%. 


 

Interessante notare come gli utili registrati nei paradisi fiscali ammontino a circa 238.000 euro per addetto, contro i 65.000 in territorio europeo. “Ciò suggerisce – si legge nel rapporto – che i profitti registrati nei paradisi fiscali vengono principalmente spostati fuori da altri paesi in cui si verifica la produzione di servizi”.


 

Da notare, però, che in questo studio non vengono prese in considerazioni due variabili: la prima è quella del Covid, che ha imposto lo stop forzato ai dividendi (qualora ce ne siano stati) con decisione della Bce che va solo adesso progressivamente allentandosi. Dall’altra c’è il tema dell’aliquota globale, concordata a giugno, che prevede una tassazione minima del 15%.

Si tratta di un provvedimento ideato principalmente per arginare i colossi tecnologici che facevano affari incredibili nel nostro continente pagando però poche tasse. Se dovesse essere confermata l’aliquota del 15% si otterrebbero 50 miliardi extra, che diventerebbero 170 se si portasse la soglia al 25%. Se questa tassazione aggiuntiva (almeno il 15%) dovesse essere applicata anche per le quote di profitto parcheggiate nei paradisi fiscali, le banche dovrebbero pagare tra i 3 e i 5 miliardi extra all’Unione Europea. Una cifra che salirebbe fino a 13 miliardi in caso di aliquota al 25%.

Ed è proprio questo il traguardo che viene consigliato dal report: “Iniziative più ambiziose – si legge nel documento -, come una tassa minima globale con un'aliquota del 25%, potrebbero essere necessarie per frenare l'uso dei paradisi fiscali da parte del settore bancario".